Chi è stato a scrivere una lettera su carta rosa con inchiostro rosso? Una macchina da scrivere (si noti bene, rosa…) buttata in mezzo a un prato significa qualcosa? Perché un cane defunto si chiama Winston, cioè lo stesso nome del vicino di casa di Don Johnston (Billy “Keaton” Murray), quello stesso vicino che aspirante detective spinge Don a risalire al mittente della lettera non fosse altro perché gli annuncia, con diciannove anni di ritardo, di essere padre di un ragazzo che è intenzionato a conoscerlo. Proseguendo: un biglietto da visita (ancora rosa…), è solo un biglietto da visita o un altro indizio? E una vestaglia (rosa, come dubitarne…?) cos’è, un semplice indumento o nasconde un significato?

A continuare così non se ne esce, perché se Jim Jarmusch ha inteso conferire a Broken flowers una cifra stilistica, un senso insomma, be’ lo ha fatto cancellando ogni frammento di certezza capace di illuminare una vicenda che ha la forma e l’andamento di un thriller dell’anima, tutto giocato sul massimo spargimento di indizi ma anche sullo svuotamento di ciò che l’indizio stesso dovrebbe costituire (tre indizi, è evidente, non costituiscono più una prova…).

L’errare di Don sulle tracce delle sue ex di venti anni prima, ogni ex un aereo e un viaggio in macchina, piuttosto che accumulare certezze le dissipa, piuttosto che aggiungere toglie, anziché avvicinare a una soluzione dirotta altrove. Per un largo tratto si rimane in mezzo al guado con Don, speranzosi su una possibile soluzione, mentre il finale, con la fuga a gambe levate di un ragazzo e il passaggio veloce di una macchina con un altro ragazzo affacciato al finestrino, sembrano quasi un invito a volere lasciare perdere il tutto perché oramai vicini alla fine ci rendiamo conto di come ogni cosa, anziché illuminata, è rimasta ostinatamente in ombra, sensazione che leggiamo anche sulla faccia, ripeto keatoniana di Bill Murray (se mai si farà un biopic sul grande Buster, Murray è già Keaton…): un misto tra incredulità e tristezza (con la cinepresa che ruotandogli attorno per due volte sembra quasi volerlo prendere in giro…).

 

Broken flowers è un grande nuovo film, ma in fin dei conti anche un film impossibile da afferrare fino in fondo. Non rimane che fissare nella mente il garbo col quale ogni scena succede all’altra, con il ricorso sistematico alla dissolvenza in nero, il che in termini cinematografici rende bene l’idea del crepuscolo (come a essere un po’ crepuscolare è la storia stessa). Un’altra cosa da fissare è la singolare presenza di Murray, vicino alla passività assoluta (vogliamo contare quante volte è ripreso seduto su un divano, sul sedile di un auto, sulla poltrona di un aereo?), eppure che deve nascondere qualcosa visto che spesso (ma non spesso quanto le dissolvenze…) Jarmusch gli si avvicina con la cinepresa a cercare forse qualche rivolo di vitalità invisibile a una certa distanza.

Certo è che il pregio di Broken Flowers, e di conseguenza del suo demiurgo Jarmusch, dimora nel riuscire meravigliosamente bene a restituire alla regia il vero significato che dovrebbe sempre avere: una presenza invisibile ma continuamente manifesta, tutta indirizzata a costruire un universo visivo nel quale i conti alla fine tornano sempre, vuoi perché non si avvertono né lungaggini né retoriche in un racconto asciutto fino all’inverosimile, vuoi perché la storia sa consegnare alla riflessione di ognuno un grande spunto, quello cioè che non sempre la chiusura di un senso sia da preferire alla sospensione dello stesso.