Sono stanco e i piedi mi mandano gli stessi segnali del cellulare: impossibile connettersi, sembra che i miei arti inferiori si fermino al ginocchio. La palla di vetro è di nuovo esaurita, ha smesso di nuovo di nevicare. C’è nessuno lassù che invece di giocare mette a posto le macchinine, ognuna nella sua casetta? E magari il furgone del cervo allo sfasciacarrozze? Mi arriva un nuovo messaggio, stavolta è un mio collega d’ufficio. Dice: “uno sconosciuto mi ha aiutato a montare le catene, con la neve sono tutti più solidali. c’è bisogno di più neve nel mondo. nic”. Alzo gli occhi sulla marmitta del furgone, ancora fumate nere. Caro Nic, facciamo a cambio di girone? Perché secondo me ti è entrata un po’ di neve nel cervello, ma se fai un salto qui capisci subito la portata della stronzata che hai scritto. Il display della temperatura segna meno cinque e io vorrei essere ai Caraibi, con i piedi a lessare nell’acqua calda del mare. Solo il pensiero mi fa male. Mando un colpo di clacson al cervo, il mio personale vaffanculo in codice morse. E lui mi risponde con le quattro frecce, per dirmi che ha capito e che se ne sbatte, e a me sembra quasi di sentire i colpi di tosse della bambina. Testa di cazzo.
* * *
— Capo…
Topo ballettava sul sedile del furgone, come se fosse seduto su un campo di ortiche.
— Che c’è?
— C’è che devo pisciare, non ne posso più. Non puoi andarti a fare un giro, visto che io non posso?
Capo fece un sorriso divertito, poi scosse la testa.
— Mi fai quasi pena. Hai avuto culo che con questo freddo la reggi meglio, se no c’era da divertirsi.
Poi prese una bottiglia di plastica, piena per metà di un liquido giallo, si tirò giù la patta dei pantaloni e la riempì per un altro quarto. Quindi si voltò di nuovo verso Topo, con un sorriso larghissimo.
— Vedi com’è facile? Se no puoi fare come il ragazzino, lasci andare la vescica e tanti saluti.
Topo fece una smorfia e continuò a ballettare sul posto.
— Basta, io vado fuori.
Capo finse di tirare il freno a mano e fece vibrare una gomitata in faccia a Topo, che sbatté il capo sul poggiatesta, emettendo un grugnito.
— Tu non ti muovi di qui. Non fartelo ripetere.
Topo, senza aprire bocca e senza guardare Capo negli occhi, si portò una mano al naso insanguinato. Poi riprese il fumetto di Topolino e si rimise a sfogliarlo per l’ennesima volta.
* * *
Quattro ore e mezzo. Ci siamo mossi quattro o cinque volte, e sempre per pochi metri. L’ultima volta ho svoltato la curva dove avevo visto sparire il camion dei pompieri, subito dopo la strada corre dritta fino a dove arriva l’occhio. E li ho visti di nuovo, con i lampeggianti blu accesi. Ormai è buio, quelle luci ancora troppo vicine stroncano le poche speranze di uscire da questo incubo. Sono riuscito a scaldare un po’ il motore, l’aria calda sui piedi ha appena iniziato a fare effetto, sento un formicolio quasi doloroso. I piedi mi dicono che ci sono ancora e di prepararmi a piangere, perché quando si rifaranno sentire saranno dolori veri. La morte comincia dai piedi, diceva Primo Levi. Inizio a capire cosa volevi dire e perché nel lager rubavi le scarpe migliori. Io ho sbagliato scarpe, queste si sono inzuppate di fanghiglia ghiacciata e i piedi mi stanno mandando le lettere di reclamo dritte nel cervello.
Siamo fermi di nuovo, non finisce più. Accendo un po’ la radio, ecco Caparezza che canta fuori dal tunnellellellel, mi chiedo se l’ha scritta dopo un giorno intero passato in macchina in mezzo alla neve di cui c’è tanto bisogno nel mondo. Non riesco a sintonizzare bene la stazione, sembra che accanto al cantante ci sia un muratore che gratta una parete con la cazzuola. Spengo tutto e mi rimetto a ballettare, in attesa della prossima volta in cui ci muoveremo ancora.
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