Di una poesia nera e rara.

 

Nonostante i temporali immancabili e posticci dei film di suspense, i cigolii o lo sbattere delle porte, le tende che si alzano al vento, la luce che sfrigola e quant’altro possa farvi sembrare il film un finto horror messo su per fare paura, il film non farà paura. Non sobbalzerete mai sulle sedie. Non lasciatevi prendere in giro dal regista che sembra quasi voglia sminuire il suo film. La raffinatezza visiva e la delicatezza con cui vengono proposte situazioni che potrebbero facilmente sconfinare nell'effettaccio continuano invece a ingenerare inquietudine e pathos, cercate di seguire quelle.

 

Non ci sarà una vera e propria paura ma un forte senso di disagio sì.

Si raggrumerà dentro di voi un sangue scuro che non potrà trovare sbocco.

Cosa può esserci oltre l’orfanotrofio, oltre l’esser soli e non amati, se non l’oblio? Cosa può spingere una persona a raggiungere quell'oblio?

C'è offesa più radicale per un’anima se non l’essere dimenticata, il non essere voluta?

Saint Ange per fortuna è molto più vicino al Suspense di Jack Clayton, con qualche eco dell'ormai dimenticato Dove comincia la notte di Maurizio Zaccaro, che ai thriller contemporanei.

 

La pellicola è diretta dal quasi esordiente Pascal Laugier (viene dal corto e dalla pubblicità).

Pablo Rosso è bravissimo ad assecondare cromaticamente l’evolversi della storia, con una fotografia sempre perfettamente funzionale e Bertrand Seitz, lo scenografo, riesce a rendere gli ambienti claustrofobici e soffocanti, squallidi e viscerali. Abbastanza commoventi le attrici Virginie Ledoyen e Lou Doillon.

 

La trama: Anna è una giovane domestica appena arrivata a Saint Ange, un orfanotrofio isolato sulle alpi francesi che sta per essere chiuso a causa degli strani accadimenti che vi hanno avuto luogo, in seguito ai quali ha perso la vita anche uno degli orfanelli. Accolta con freddezza dalla direttrice, Anna dovrà condividere la sua permanenza nell’enorme edificio con la cuoca Helenka e Judith, l’ultima orfana dell’istituto. Ben presto però la giovane ragazza scopre che il Saint Ange nasconde più di quanto l’apparente facciata caritatevole voglia trasmettere. Nei momenti in cui Anna rimane da sola negli ampi saloni dell’istituto misteriose entità sembrano voler comunicare la loro storia alla giovane donna. Durante il lungo girovagare nei locali dell’edificio la ragazza scoprirà che un terribile segreto è racchiuso nei sotterranei dell’istituto che durante la guerra accolsero trecento bambini di cui è sparita ogni traccia.

Mauro Smocovich

Francia, 1958. Anna aspetta un bambino. Per mantenersi lavora come donna delle pulizie al Saint Ange, un orfanotrofio semi abbandonato. Ben presto Anna si rende conto che il Saint Ange è stato teatro di una serie di tragici eventi che hanno coinvolto dei bambini lì giunti nell’immediato dopoguerra…

Che sia un orfanotrofio, un albergo chiuso per la stagione invernale oppure una casa dove qualcuno ha commesso un delitto, non fa in fin dei conti tanta differenza, visto che da che il cinema è il cinema (e ancor prima la letteratura la letteratura…), gli edifici citati, lo abbiamo imparato, sembrano serbare una sorta di ricordo di quanto di tragico è accaduto in loro, ricordi pronti a rovesciarsi addosso al primo venuto.

Dato l’abbrivio, il cliché vuole che sia un vivo del presente a scoprire quanto di sepolto è rimasto nei luoghi predetti.

Se Shining (la reincarnazione di Jack Torrance suggerita dalla foto appesa al muro che chiude il film) e The Others (sono i vivi a disturbare i morti e non viceversa…), rappresentano l’eccezione che conferma la regola, be’, questo Saint Ange è tout court la regola, punto e basta, anche se la vicenda vira, nel lattiginoso finale (lattiginoso per via delle scenografie…), verso un inaspettato (oppure atteso?) inno alla vita nascente da proteggere sempre e comunque, finale che nella suo sollevare il cuore dalle ambasce (poche) cullate fin lì, non assolve il film da una certa insignificanza spalmata troppo a lungo perché si possa non notarla.

Colpa anche di una regia svolazzante che in modo irritante apre ogni scena, qualunque essa sia, con un movimento di macchina possibilmente laterale o semicurvo, forse per aumentare il mistero di una storia che di mistero semplicemente non ne ha.

Le attrici non aiutano: Virginie Ledoyen (Anna) sta alla recitazione come un pesce alla terra ferma. La sua compagna di sventura Lou Doillon, meno scene e quasi tutte madri, se la cava meglio e sembra Daria Nicolodi giovane. Katherine MacColl, richiama alla mente Lucio Fulci (Paura nella città dei morti vivent, E tu vivrai nel terrore - L’aldilà).

Sergio Gualandi

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