Nel silenzioso, desertico e spettacolare paesaggio australiano un viaggio on the road, alla volta di Wolf Creek (pianoro lunare, marchiato per sempre dall’impatto con un meteorite) è funestato dal Male. Lo incarna, folle assassino dai coltellacci pluriacuminati e la schioppettata facile, la controparte malvagia di Mr Crocodile Dundee. Un giovane autoctono e due amiche britanniche organizzano l’escursione verso madre natura, speranzosi di avventure e divertimento. Troveranno il nulla, dove anche le colline hanno gli occhi. Dopo un inspiegabile incidente, vengono recuperati da uno strano figuro che li conduce sulla lunga strada verso l’inevitabile. L’appuntamento col terrore è percorso nel buio più pesto e primitivo, accompagnato dai minacciosi richiami degli animali. Giocato sulla falsariga del fatto realmente accaduto (si ispira alla vicenda di Ivan Milat, australiano omicida seriale che colpiva i turisti) come alcuni suoi illustri predecessori – Non aprite quella porta su tutti – espediente che dovrebbe creare empatia e coinvolgimento. Il meccanismo funziona e tiene il ritmo sino al primo scivolone della trama quando, per mantenere alta l’ansia e il desiderio di scioccare, si comincia a sacrificare la ragionevolezza. Il regista si rifà a una frase di Stephen King che col brivido ci ha fatto colazione e non solo: “Se non ci credi, non hai paura. Non puoi avere paura”. Credibilità che si vorrebbe acquisita ma che si sfalda a metà film cedendo alla prima occasione mancata di far fuori l’assassino (lui è più che svenuto e inerme e nessuno pensa a fracassagli il cranio per renderlo inoffesivo?) e in perdite di ordito inutili e pericolose quando da sola la tensione dell’impossibilità a salvarsi in un territorio così ampio, basterebbe a inquietare per mesi. Si risolve il tutto in una mattanza intollerabile se osservata con eccessiva suggestione ma meritata, se considerata giusto contraltare al repentino tralascio della logica in nome dell’effetto a tutti i costi.