Georges, conduttore di un programma televisivo sui libri, comincia a ricevere delle videocassette contenenti delle registrazioni su di lui e la sua famiglia. Pian piano i video cominciano a diventare sempre più intimi, come se chi li gira conoscesse molto bene il passato di Georges…

 

Nulla da nascondere, certo, ma alla fine anche nulla da dichiarare alla immaginaria (ma mica tanto…) frontiera tra Cinema e cinema, tra necessità narrative che afferrano e trascinano, ed elucubrazioni fini a se stesse.

Ecco, se chi scrive si dovesse portarsi con sé un film causa un viaggio che lo tenesse lontano per qualche settimana dalle sale, la scelta non cadrebbe certo sul premio per la Miglior Regia al 58mo Festival di Cannes 2005, premio che fuor di metonimia (il premio per l’opera) risponde al nome di Niente da nascondere dell’austriaco più conosciuto che c’è, al secolo Michael Haneke, devastante sin dai tempi di Funny Games, coerentissimo almeno fino a Code Inconnu, giacché con i successivi, Il tempo dei lupi e questo, sembra divertirsi troppo con ciò che lo ha reso giustamente famoso, vale a dire un algido e implacabile sguardo teso a osservare il disfacimento di un nucleo famigliare sotto l’urto di una minaccia esterna più o meno raffigurabile.

 

Stavolta il gioco è, almeno nelle intenzioni, assai sottile, visto che alla oggettività e visibilità del materiale filmato e fatto pervenire sistematicamente all’abitazione di Georges, conduttore di una rubrica televisiva dedicata ai libri, materiale corrispondente al lavoro incessante di un’invisibile telecamera puntata all’inizio sulla porta d’ingresso dell’appartamento dello stesso Georges e in seguito sui luoghi della sua infanzia, corrisponde il buio più completo riguardo all’artefice del filmato stesso.

 

Ovvio che da un siffatto meccanismo scaturiscono non poche riflessioni, a iniziare da quelle chiamanti in causa lo status stesso dell’immagine, vista l’impossibilità di stabilire a priori a quale livello di rappresentazione corrispondono le immagini che vediamo scorrere sullo schermo, se a una videocassetta, e quindi sottoposte a un doppio sguardo, quello dello spettatore e quello dei personaggi, oppure al film (che le immagini precedenti contiene…), sottoposte al contrario a un unico sguardo, quello dello spettatore, il che mostra, se ce ne fosse ancora bisogno, la reversibilità di ogni point of wiew riassumibile nella domanda "stiamo osservando qualcosa o siamo oggetto dello sguardo altrui?", tutte domande e riflessioni che in tempi di cinema spesso preconfezionato certo non guastano.

 

Eppure, alla fine la sensazione è quella di aver assistito alla classica montagna che dopo un lungo travaglio partorisce un topolino, dove il topolino è lo scheletro nell’armadio di Georges, costretto a fare i conti da adulto con la gelosia infantile che quaranta anni prima lo aveva reso ferocemente determinato nei confronti di un piccolo immigrato algerino rimasto orfano.

 

Insomma, pur apprezzando una regia solida e rigorosa eppure eversiva che rincorre di continuo quello che sembra importante ma che volontariamente dimentica ogni volta di rivelare la fonte ultima dell’immagine stessa, in altri termini il punto di vista irriducibile che permetterebbe una volta per tutte di stabilire chi filma chi.

 

Prima ipotesi: "al limite nessuno, se non il regista stesso", Alberto Barbera, Caché, Cineforum n. 446, pag. 44.

Seconda ipotesi: "[…] l’immagine fissa di una telecamera-Dio-spia sulla banalità delle nostre colpe rimosse", Fabrizio Tassi, idem, pag. 36].

 

La cornice che con cura Haneke ha tirato su ci appare alla fine sprecata, chiamata com’è a contenere qualcosa che con tutta la buona volontà rimane pur sempre poca cosa (su quanto e come le colpe del passato possano ripercuotersi sul presente Old Boy rimane per il momento straordinariamente unico…).

 

Forse resteranno nella memoria due scene forti con al centro la morte, prima animale, poi umana sotto forma di suicidio (altrimenti che Haneke sarebbe?) e la performance della Binoche, che in un ruolo piccolo e per niente semplice proprio perché vicino alla banalità (la moglie in ambasce…) è, come al solito, sbalorditiva.