Dove sei quando scrivi? Sia fisicamente che mentalmente.
Sono nel mio studio, nell’appartamento dove vivo a Vercelli; lavoro su un computer desktop, circondato dalla mia raccolta di musica in cd e vinile (ascolto ancora in analogico). Spesso scrivo con lo stereo acceso in sottofondo. Mentalmente sono invece in un luogo fisico ben definito, che ho costruisco di volta in volta tramite accurate ricerche nel web. Mi piace avere chiare le dimensioni dei luoghi chiusi in cui ambiento le storie, e considero anche essenziale visualizzare il più possibile la geografia dei luoghi. Mi sento molto ispirato dalle immagini. Di conseguenza, Google Maps è diventato uno strumento imprescindibile per me, come pure planimetrie di edifici reali che con un minimo di impegno è possibile rinvenire in internet.
Come scegli le tue vittime, e i tuoi assassini?
Bella domanda. Devo dire che trovo molto efficace, e narrativamente produttivo, immaginare i personaggi sulla base di fisionomie e caratteri psicologici reali: persone che conosco, ma anche gente di spettacolo, cinema o musica; e al tempo stesso, non mi piace descriverli fisicamente nel dettaglio. Sono sicuro che l’immedesimazione aumenta se lasci al lettore la libertà di immaginare il più possibile per conto suo i lineamenti. Va detto comunque che quando costruisco un soggetto, sono i protagonisti che si adattano alla trama e non il contrario: scelgo cioè le persone di cui ho bisogno per arrivare all’obiettivo letterario che mi propongo, non progetto il plot sulla base di personaggi scelti in precedenza.
Qual è il tuo modus operandi?
È un procedimento piuttosto comune. La maggior parte delle volte scrivo con un obiettivo chiaro: per esempio mi hanno commissionato un racconto per una determinata antologia, magari con la richiesta di un argomento particolare, oppure scrivo con il proposito di partecipare a un concorso. Il lavoro preliminare è esclusivamente mentale: aspetto qualche giorno, o qualche settimana, che mi venga un’idea, che posso estrarre da qualche lettura o da un film, o da una notizia di cronaca, poi penso ai personaggi di cui ho bisogno. A questo punto scrivo un soggetto, poche righe se è un racconto, oppure due-tre pagine se si tratta di un romanzo. A partire dalla lunghezza (di solito tendo a “saturare” il massimo consentito dal bando o dalle specifiche dell’editore), progetto una divisione in parti, capitoli per esempio, con indicazione schematica degli avvenimenti. Anche per ogni personaggio preparo due righe di descrizione: età, breve descrizione fisica (che tengo per me), dettagli influenti per la trama. Poi, la scrittura vera e propria è caratterizzata più che altro da una lunga, lunga serie di revisioni successive. Va detto che non mi siedo alla tastiera se non ho presente cosa scriverò quel giorno, non mi arrischio “a mente vuota davanti alla pagina vuota”.
Chi sono i tuoi complici?
Un tempo avevo più di un beta-lettore, oggi ho la presunzione di intuire da solo, se non quando un testo può “funzionare”, per lo meno quando è scritto esattamente come volevo scriverlo — e questi sono due concetti differenti. Mia moglie, che è una lettrice attenta, mi aiuta poi a individuare refusi e errori logici, mentre un amico e vincitore del Premio Tedeschi mi fornisce una prima impressione autorevole. Anche per altri generi letterari ho una lettrice preferita, che mi dà consigli spassionati.
Che rapporti hai con i tuoi lettori e le tue lettrici? Avanti, parla!
Questa è la domanda più difficile. Non ho un rapporto vero e proprio; a volte qualcuno mi contatta sui social o via email per farmi presente quanto gli è piaciuto un racconto o un romanzo che ha appena letto. Non mi è mai capitato che qualcuno mi scrivesse per opinioni negative, peccato. Una volta, in via eccezionale, ho proposto di leggere un mio romanzo giallo appena uscito al club di lettura che organizzo nella mia città — ma con i partecipanti ho una confidenza di anni: il testo è piaciuto molto mi hanno anche fatto presente cosa è piaciuto meno. È stato divertente, in un certo senso illuminante.
Che messaggio vuoi dare con le tue opere?
Il messaggio non è mai esplicito. Io sono per la vecchia, abusata formula per cui il medium è il messaggio. D’altronde, mi pare che una parte considerevole delle opere che si pubblicano non abbiano proprio nulla da dire, che molti esordienti si cimentino in semplici esercizi per dimostrare di essere in grado di scrivere un giallo, o un romance o altro. Io ho studiato alla Statale di Torino, sono per l’ermeneutica di Pareyson: la forma è la sostanza, un romanzo non è l’idea, il plot e i personaggi, ma il modo in cui tutto questo è raccontato. Lo stile prima di tutto, e subito dopo la credibilità: non sono attratto, per esempio, da storie sensazionalistiche di serial killer che lanciano complicati messaggi agli inquirenti. Mi piacciono storie realistiche e umane, alla Scerbanenco per intenderci.
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