Nina rifiuta l’avanzare del tempo: i corpi in corsa verso il disfacimento, le pesche marce, l’intonaco che si sfalda. Eredita una cantina ma non sa che farsene di quella stanza stipata di scaffali che arrugginiscono. Ci trova dentro scarti, memorie fisiche e psichiche che non le appartengono, ma che portano il suo stesso corredo genetico. Nina ha perso un amico, una gatta, un ragazzo e soprattutto il senso della continuità; eredita la cantina come si eredita una mancanza. Nina ha la testa piena di parole che non riescono a comporre la risposta ai suoi tanti interrogativi, né a identificare un momento da cui far partire il tutto. In una vita in cui gli inizi sono il momento più felice, c’è sempre un prima, a volte mai vissuto, a cui si dovrebbe guardare con nostalgia. Usando una scrittura affilata e cristallina La Fauci costruisce una trama frammentata, in cui frantumi di vita diventano oggetto di un’analisi quasi clinica, rivelando l’estraniazione della protagonista nei confronti dell’esistenza. Croste è un processo di bonifica, un libro sulle cose che marciscono, le cose di cui non ci si è presi cura, la lacuna che deve essere abitata.

Croste di Jessica La Fauci (Agenzia Alcatraz)

Dalla postfazione di Marilena Votta Mi chiedo spesso cosa succede a chi non desidera mettersi in mostra, a chi vive una vita fatta di ombre e riflessi, e leggendo queste pagine ho trovato una sorta di conforto. C’è una bellezza assorta nel lasciar accadere gli sguardi degli altri, le loro risate che pure ci piacciono, ci fanno stare bene per una frazione di tempo, ma che ci lasciano un senso di estraneità. Lasciare che le cose accadano, inserirsi nel flusso degli eventi, senza correre per accumulare traguardi o diplomi da appendere al muro, carta che accoglierà muffa e il cui senso non interessa a nessuno. La vita di Nina non fa prigionieri, perché a quale scopo trattenere amici, amanti, ex fidanzati quando è chiaro che tutto è destinato a scomparire, a diventare, un giorno, X nel ciclo dell’azoto. Siamo croste, croste sul ginocchio quando ci svegliamo nel lettino sudato dei nostri quattro anni, e il nostro ginocchio ci mostra una ferita, un segno di scorticatura che rivela le tracce del nostro stare al mondo. E quel segno sul ginocchio rappresenta già la misura colma di tutta la vita che possiamo sopportare.