I soldi della contessa: Sequestro, rapina e omicidio di Marta Kusch
L’albergo dove trascorre le sue ultime ore è chiuso oramai da tempo. Ma a Croce d’Aune, chi ha passato la settantina, la ricorda ancora perfettamente. Era una bella donna, alta e bionda che regalava le caramelle ai bambini. Il suo corpo privo di vita viene rinvenuto il 6 maggio 1945 nei pressi del cimitero di Sant'Osvaldo, a Pedavena. Su un dito della mano erano visibili delle escoriazioni provocate da chi le aveva strappato l’anello, come dichiarerà cinque anni dopo al processo il sacrestano Benvenuto Siragna, che trasportò la salma nella cella mortuaria di Pedavena. La vittima si chiamava Luisa Florentine Martha Kusch (in Rower), una cittadina americana di origini tedesche nata a Niederlahnstein il 14 marzo 1894 da tutti conosciuta come “la contessa”, per la sua relazione sentimentale con il conte Marco Borgogelli (o Borgoncelli), ufficiale delle SS italiane che aveva preso alloggio a Servo di Sovramonte, anche lui ucciso dai partigiani nell’autunno del ’44. L’uomo era titolare della Aices di Pedavena, un’impresa edile che lavorava per la Todt. L’assassinio della Kusch, sarebbe rimasto sepolto nell’oblio, se qualche anno dopo la fine della guerra, il fratello e la cognata della donna non si fossero rivolti al Tribunale di Belluno per l’accertamento delle responsabilità.
Il delitto di Busto Arsizio: Silvia Da Pont, la ragazza di Cesiomaggiore fatta morire da Carlo Candiani
Il delitto di Busto Arsizio fu un caso che fece molto scalpore negli anni '50 quando accadde. Se ne occuparono anche i grandi giornali come il Corriere d'Informazione e La Stampa che seguirono tutte le fasi processuali fino alla Cassazione. E anche i periodici come Tempo, Oggi, La Settimana illustrata, dedicarono ampi servizi alla tragica fine di Silvia Da Pont, la ragazza di 21 anni trovata morta il 28 ottobre 1951 nella cantina della villetta in via Galileo Galilei n.3, dove lavorava come domestica dalla famiglia di Adelchi Nimmo, dipendente di una compagnia aerea. Negli anni ’50 erano molte le ragazze provenienti da famiglie modeste che lasciavano il loro paese per andare in città a fare le bambinaie e le domestiche che però erano trattate come serve. Di questa povera ragazza conosciamo i dettagli dalla testimonianza resa dai suoi familiari, il padre Antonio Da Pont boscaiolo di Cesiomaggiore, la madre Adelina Bortolas domestica e poi casalinga, e le tre sorelle Maria, Rosina e Santina. Sarà la sorella maggiore, Maria, che faceva la babysitter a Zurigo, a dare impulso alle indagini che porteranno alla sbarra il cavalier Carlo Candiani, settantenne, due volte vedovo, ex commerciante di macchine per cotonifici, appassionato di farmacologia ed erboristeria. L'orco di Busto Arsizio sarà condannato nei tre gradi di giudizio e morirà in carcere.
Omicidio di Emma Canton: Atti processuali – Archivio di Stato di Venezia 1933
Quello di Emma Canton, la ragazza 22enne assassinata brutalmente nella notte tra sabato 4 e domenica del 5 febbraio del 1933 a Sant’Antonio Tortal da Abele De Barba, è un omicidio orrendo per le modalità adottate dall’assassino. Un omicidio reso ancor più odioso perché Emma era incinta di due mesi a seguito della relazione poi interrotta con lo stesso suo carnefice. Di più. Come rivelano gli atti processuali conservati all’Archivio di Stato di Venezia, Emma, anche da morta, sarà lasciata sola dalla comunità in cui vive. Su una sessantina di testimoni, infatti, ad inquadrare la personalità dell’assassino è stata solo un’altra donna, la vicina di casa dell’omicida, che dichiarerà agli inquirenti: “E’ un giovane falso, e nell’intimità un violento”! Per tutti gli altri, Abele De Barba è un bravo giovane laborioso! Spiace constatare che novant’anni sembrano trascorsi inutilmente, dal momento che anche oggi succedono fatti analoghi, dove talvolta è ancora la vittima ad essere colpevolizzata. Ma le indagini sul caso Canton sono condotte egregiamente e le prove di colpevolezza sono inconfutabili, tali da inchiodare l’assassino. Così il 12 ottobre 1933, otto mesi dopo il delitto e con una serie di colpi di scena, la Corte d’Assise di Belluno condanna all’ergastolo, inasprito da un anno di isolamento, il 22enne di Sant’Antonio di Tortal, Abele De Barba, per aver ucciso per motivi abbietti e con premeditazione la povera Emma Canton. Ma l’ergastolo in Italia, non significa fine pena mai, come si vedrà, nemmeno per i peggiori criminali.
Il delitto Cimetta: L’omicidio a Venezia nel 1947 della titolare del Caffè Vittoria di Belluno. Dagli atti processuali dell’Archivio di Stato di Venezia
Alle 6.30 dell'8 maggio 1947, al largo de Ca' La Bricola n.21 a Venezia, la rete tartana a strascico di Luigi Robelli si incaglia. Per liberarla, uno dei due figli del pescatore si tuffa dalla gondola, e nel fondale trova un baule ancorato a due macigni con corde e catene. Al suo interno c'è il corpo di una donna segato all'inguine, con i segni della furia omicida, ma con ancora addosso i gioielli, la fede, un brillante e gli orecchini. La donna è Linda Cimetta in Azzalini (12.03.1902 – 24.04.1947), 45enne originaria di Vittorio Veneto e residente a Belluno, dove gestisce il Caffè Vittoria. Giovedì 24 aprile 1947 Linda si reca a Venezia, come aveva fatto altre volte, dall'amica Anna Gaiotti a San Marco per acquistare una partita di sigarette americane di contrabbando che poi avrebbe rivenduto a Belluno al mercato nero. Aveva in tasca 110 mila lire, che risulteranno essere il movente del delitto. Le indagini rivelano che Linda ha incontrato Bartolomeo Toma, 39enne originario di Brindisi con il vizio del gioco. L'uomo ha già dilapidato i beni della sua famiglia e anche della suocera, ed ha una relazione con la tabaccaia 56enne Elisa Cudignotto che accetta di ospitare Toma e famiglia nella soffitta della sua casa in Calle della Bissa 5471. Il 29 aprile l'amica di Linda ne denuncia la scomparsa. Il I° maggio gli agenti arrestano Toma. Nel corso della perquisizione la polizia rinviene un fazzoletto macchiato di sangue appartenuto a Linda Cimetta. La mattina del 2 maggio Toma confessa l'omicidio per impossessarsi del denaro. Ma in Calle della Bissa il cadavere non c'è. Toma dice di averlo messo in un baule e gettato in acqua. Il 4 maggio durante l'interrogatorio Toma fa il nome di un complice, Luigi Sardi, 45 anni, gondoliere veneziano di San Samuele. E lo accusa di aver inflitto il colpo mortale alla donna e di aver segato le gambe del cadavere per farlo entrare nel baule. Sardi inizialmente nega. Poi confessa e ritratterà ancora proclamandosi sempre innocente. Dichiara di aver trasportato il baule con la sua gondola passando dinanzi il Casino degli Spiriti, un luogo isolato dove terminano le Fondamente Nove. L'11 maggio si celebra il funerale di Linda Cimetta, a spese del Comune di Venezia nella basilica dei Santi Giovanni e Paolo, alla presenza del figlio, la sorella e il nipote della vittima. C'è anche il sindaco Gianquinto, il prosindaco e il questore. La gondola con il feretro è seguita da un corteo di altre cento gondole. La salma sarà poi tumulata nella tomba di famiglia a Ceneda di Vittorio Veneto. Per Toma e Sardi inizia il processo. L'omicidio premeditato per rapina nel 1947 è punito con la pena di morte mediante fucilazione. In soli due mesi, il 18 giugno 1947 il Tribunale militare straordinario di Padova condanna i due imputati all'ergastolo. Ma il 21 novembre 1949 la Corte di Cassazione a sezioni riunite, su ricorso di Toma, annulla la sentenza del Tribunale militare per difetto di giurisdizione. Il 18 ottobre la Corte di assise di Venezia conferma la condanna all'ergastolo. Il 10 giugno del 1952 si pronuncia la Corte d'Assise d'Appello confermando le pene agli imputati. Sardi presenta un nuovo ricorso per la seminfermità che gli viene riconosciuta dalla Corte d'Assise d'Appello tre anni dopo riducendo la condanna a 30 anni con 6 di condono. Sardi esce dal manicomio di Reggio Emilia nel 1973. Nell'inverno del 1980 uccide un maresciallo di polizia Savino Senisi colpendolo alle spalle con un tubo. Arrestato, continua a ripetere "ero innocente". Muore fuori di senno in cella nel 1983. Il 12 marzo 1955 Toma viene condannato a 24 anni per l'omicidio e 25 per la rapina. Evade in una notte di tempesta del il 6 luglio 1960 dal carcere di Santo Stefano (Latina) insieme a Giovanni De Luca, 46 anni, rapinatore bolognese. Dei due non si seppe più nulla.
L'inquietante morte di Lea Luzzatto: Dagli atti processuali dell'Archivio di Stato di Venezia
La notte del 17 dicembre 1946 a Belluno, in fondo alle scale della villa dove abitava, in via Feltre n.1, viene trovata con il cranio fracassato Lea Luzzatto, una ragazza di 23 anni che si era laureata in lettere all'Università di Padova il mese prima. Morte accidentale o delitto? Delle tre perizie mediche due propendono per l'omicidio e una per la disgrazia. Caduta l'accusa per un rappresentante di liquori, mutilato di guerra di due dita, il principale sospettato rimane il fratello Alberto, studente 27enne fuori corso di Agraria. Un giovane "alto, di aspetto inespressivo e dagli occhi sbiaditi", come lo ritrae Egisto Corradi sul Corriere d'Informazione del 26 febbraio 1948. Verrà assolto per insufficienza di prove in primo grado il 17 giugno del 1949 dalla Corte d'Appello di Belluno e successivamente assolto con formula piena, per non aver commesso il fatto, dalla Corte d'Assise d'Appello di Venezia il 5 marzo del 1953
Giornalista, fondatore e direttore responsabile del quotidiano online Bellunopress, Roberto De Nart è direttore responsabile di “Filò” periodico di turismo, “Atelier”, rivista specializzata di architettura, design e arte del Nordest, e “Cortina Magazine” storica rivista della Perla delle Dolomiti.
Nel 2014 ha pubblicato “Belluno ieri e oggi, cronache del passato”, nel 2016 “Incontri e interviste a Belluno e dintorni”, nel 2017 "Longarone non c'è più" sul servizio di trasporto dei familiari delle vittime dopo la tragedia del Vajont e nel 2018 “I soldi della contessa” sull’uccisione a guerra finita di Marta Kusch a Feltre nel 1945. Nel 2019 “Il delitto Cimetta” la storia della titolare del Caffè Vittoria di Belluno uccisa a Venezia nel 1947.
Ha collaborato con i quotidiani Il Gazzettino, il Corriere delle Alpi e altre testate. Dal 2007 al 2010 è stato direttore responsabile del tabloid La Pagina.
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