Dove sei quando scrivi? Sia fisicamente che mentalmente
Io mi muovo di continuo fra tre città e due nazioni, e ognuno di questi luoghi ha la sua postazione di scrittura, i suoi rituali, le sue consuetudini. Nella casa di Coventry sono completamente solo, non ho praticamente orari (a parte quelli delle lezioni) e di libri ne tengo pochissimi. Se ho da realizzare una traduzione è il posto perfetto. Ad Arona scrivo il grosso degli articoli, dei libri, delle introduzioni, anche perché ho praticamente tutte le fonti sottomano. A casa dei miei, nelle Marche, ci sono i libri e i dischi di quand’ero adolescente: quando sono lì, in genere d’estate o sotto le feste (e quando non sono completamente monopolizzato dalla Jack Russell di mia madre), più che scrivere ripesco libri che nemmeno ricordavo di avere, pianifico il lavoro dei mesi successivi, mi faccio venire nuove idee. Comunque, ormai da qualche anno scrivo in casa, e per me è una novità perché per moltissimi anni ci sono riuscito solo al bar: dove c’era silenzio non riuscivo, avevo bisogno di un posto pubblico, di gente, di rumore. Non so perché, probabilmente dovevo avere una specie di disturbo dell’attenzione che si è risolto o attenuato con la mezza età. In ogni caso meglio così, i posti dove scrivevo hanno cambiato tutti gestione, arredamento, filosofia. Quei porti franchi che erano, ancora vent’anni fa, certi caffè non esistono più, e i ragazzi che vogliono fare quel che facevo io probabilmente oggi vanno da Starbucks – il che va benissimo, eh: solo, non è per me.
Come scegli le tue vittime, e i tuoi assassini?
Per uno scrittore, dire che non è lui a scegliere i personaggi ma il contrario è spesso un cliché: nel mio caso, però, è un cliché che si avvicina molto alla realtà, perché io non sono uno scrittore in senso stretto (anzi, tecnicamente non sono nemmeno uno scrittore), e una storia – per essere raccontata da me – deve anzitutto essere vera. In realtà, però, sappiamo benissimo che qualunque processo di ricerca – storica, filologica, letteraria – ha qualcosa dell’indagine poliziesca, e anzi, storicamente, è vero l’opposto: come ha dimostrato Carlo Ginzburg, è il detective della narrativa ottocentesca ad aver mutuato il proprio metodo dal filologo (e dal medico, e dal cacciatore), e non il contrario. Per questo, scrivendo, è bello a volte scoprire le carte, e raccontare – più che i risultati di una ricerca – il cammino che ci ha portati a re-interrogare proprio quel problema, riprendere in mano quei documenti, ri-raccontare quella storia: e farlo senza omettere niente, i passi falsi, i vicoli ciechi, le ipotesi contraddette, le inevitabili lacune. Come, appunto, in un romanzo poliziesco, in cui il ricercatore incarni il detective e al posto delle vittime stiano quelle storie, persone, voci perdute che non chiedono che di essere ascoltate (l’assassino, invece, è sempre quello: il discorso del Potere, quello che stabilisce chi ha dignità di parola e chi no, chi deve passare alla storia e chi no, chi è ‘classico’ e chi no). Occorre però anche sapere che – nel nostro mestiere – è assai più facile ritrovarsi coi dubbi dei personaggi di Dürrenmatt che con le certezze di Poirot. E spesso si finisce a somigliare a Isidro Parodi, il detective di Borges e Bioy Casares, che sentenziava dalla cella di un carcere senza poter in alcun modo confermare o smentire le proprie ipotesi.
Qual è il tuo modus operandi?
Da persona che non crede nell’astrologia, ma che non ha mai smesso di sperarci, l’unica cosa che posso dire è che sono Leone ascendente Vergine: una combinazione esplosiva, che alla grandeur del Leone (ai limiti della megalomania) unisce la meticolosità della Vergine (ai limiti della sindrome ossessivo-compulsiva). Quindi, non solo non posso impedirmi di concepire progetti elefantiaci e ambiziosissimi, ma devo pure portarli a termine (il che non vuol dire che sempre ci riesca o ci riesca bene: la Vergine si sincera solo che ci perda il sonno). Quindi, se dovessi sintetizzare il mio modus operandi, direi che essenzialmente consiste nel conoscere ciò di cui sto parlando al meglio che posso, anche a costo di intraprendere ricerche lunghe e articolate su argomenti di cui fino a quel momento sapevo magari pochissimo. D’altro canto, e qui torna utile il Leone, a un certo punto so che la ricerca si deve fermare: è allora che la scrittura incomincia, e a partire da quel momento, in genere, il libro è pronto in poche settimane. Anche quelli più lunghi? Anche quelli più lunghi. Si chiama grafomania, e il mio è uno dei pochi lavori in cui una patologia del genere può tornare utile.
Chi sono i tuoi complici?
una complice sola, la mia biblioteca.
Che rapporti hai con i tuoi lettori e le tue lettrici? Avanti, parla!
Pochi, e me ne dispiace. La maggior parte degli accademici non si pone questo problema: i libri che escono con editori universitari, oltre a costare spesso uno sproposito, sono generalmente diretti agli addetti ai lavori, e non cercano (né, del resto, pretendono) di arrivare al grande pubblico. Ma io non sono così: io voglio lettori e ne voglio quanti più possibile, e per questo cerco di collaborare con editori che abbiano una buona distribuzione e voglia di promuovere i propri prodotti, di moltiplicare le occasioni di confronto pubblico, di avviare collaborazioni. Non è facile, perché molti editori sono diffidenti verso la saggistica e gli eventi di persona sono sempre più problematici (pandemie a parte). Con alcune persone che avevano apprezzato i miei lavori, comunque, ho corrisposto, ci siamo incontrati, in qualche caso siamo anche divenuti amici. E noto anche con piacere che alcune espressioni che ho coniato, rilanciato o proposto in lingua italiana – ‘orrore popolare’, ‘Italia lunare’, ‘occultura’ – stanno gradatamente entrando nel lessico di chi si occupa di certe cose. Il segno che uno lascia si misura anche da cose come questa.
Che messaggio vuoi dare con le tue opere?
Oddio, messaggio, avvocato. No, non un messaggio: un metodo. Un modo di avvicinare i testi che non si fermi al contenuto o a blandi giudizi estetici da tema di liceo, ma ponga al testo domande, lo legga contropelo, lo smonti e lo rimonti; senza categorie preconcette, definizioni preconfezionate, gerarchie tendenziose. Fare critica non significa formulare giudizi, ma arricchire – rendendola più problematica e, dunque, stimolante – l’esperienza di lettura.
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