Dove sei quando scrivi? Sia fisicamente che mentalmente
Fisicamene nel mio studio di Pescara e a volte in quello di San Severo, dove però vado molto di meno dopo la morte della mia mamma, che mi ha segnato profondamente. In entrambi i casi, circondato da libri. A questi ultimi ho dedicato, dedico e dedicherò la mia intera esistenza, e mi riferisco alle opere altrui. Mentalmente sono calato full time nella storia che di volta in volta scrivo. Non solo con l’inventiva, ma anche con i materiali di documentazione, che sono in larga parte cartacei. Non mi fido molto della rete. Vivo la mia stessa narrazione come se appartenesse a un’altra persona e non riesco ad andare avanti se non mi stupisco delle pagine che butto giù.
Come scegli le tue vittime, e i tuoi assassini?
Come sai, frequento soprattutto la spy-story, dove il confine tra assassini e vittime non è così marcato come nel thriller vero e proprio. Ancor meno quello tra buoni e cattivi. Il mio maestro è John Le Carré, cantore di un mondo in cui sono saltati tutti gli appigli etici e ideologici. Anche quando scrivo dei gialli veri e propri, applico questa premessa. Quindi spesso le vittime meritano il loro fato letale e gli assassini hanno motivazioni profonde, che trascendono le leggi.
Qual é il tuo modus operandi?
Ho di continuo idee dai possibili sviluppi narrativi, perciò devo fare una cernita. Fortunatamente per me, capita spesso che mi si chieda per vie professionali di scrivere qualcosa di specifico. Allora comincio a lavorare sulle basi realistiche della vicenda. Quando si tratta di ambientare qualcosa nel passato, rivado all'epoca dello sfondo e la assimilo finché viaggio in una macchina del tempo virtuale che mi permette di essere presente sulla scena dei fatti.Se invece il plot è contemporaneo, scelgo sempre argomenti che non siano troppo legati all’attualità, ma le precorrano o al contrario la inquadrino in una cornice di persistenza. Insomma cerco di ottenere un risultato che non invecchi troppo presto. O mai.
Chi sono i tuoi complici?
Non ne ho. Evito di raccontare a mia moglie e agli amici qualsiasi cosa del work in progress. Temo che “sfogarmi” in anticipo tolga impeto al bisogno di sviscerare tutto per iscritto.
Che rapporti hai con i tuoi lettori e le tue lettrici? Avanti, parla!
La scrittura è un lavoro solitario. Anche nell’era di Internet, non è sempre facile avere dei riscontri immediati quando esce qualcosa di mio. Però mi sono accorto di avere qualche aficionado. Poi, ci sono le presentazioni, dove ricevo attestati di simpatia. apprezzamenti e addirittura elogi per me sempre inattesi. A mia volta, quando parlo con i lettori e le lettrici divento sempre autoironico. Cito la mia faccia da impiegato di altri tempi che contrasta con il demone della creatività annidato dentro di me.
Che messaggio vuoi dare con le tue opere?
Ricorderai bene il noto motto di Samuel Goldwin: «Voglio una storia. Se vuoi inviare un messaggio, chiama la Western Union». In parte lo condivido, con una differenza. La storia è anche un messaggio, di per sé. Direi, dunque, che il messaggio cambia con la trama. Nelle mie opere, comunque, torna una costante. La caducità dell’esistenza, la ricerca di una condivisione sentimentale difficile o impossibile, la profonda sfiducia nell’umanità, l’aspirazione a un’ascesi ideale, il culto della raffinatezza, che si palesa già nello stile della prosa… Senza eccessi, perché mi rivolgo a lettori e lettrici, non voglio finire prigioniero di un circolo autoreferenziale.
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