C'è un racconto di Nathaniel Hawthorne – riportato anche in appendice, nella splendida traduzione di Eugenio Montale – dove si parla di un reverendo negli Stati Uniti dell'Ottocento che da un giorno all'altro, per espiare una colpa segreta, decide di coprirsi il volto con un velo nero; da quel momento non se lo toglierà mai più, nemmeno dopo morto. Il personaggio di questo racconto è costruito partendo da un individuo realmente esistito, il Reverendo Moody. Un particolare che deve avere segnato a fondo l'immaginazione di Rick Moody (uno tra i più apprezzati giovani autori statunitensi), visto che la storia del reverendo fa parte dei racconti di famiglia fino a fargli supporre che si trattasse di un suo diretto antenato. Non sono in molti, in fondo, a poter vantare degli avi che fanno parte contemporaneamente della storia della nazione e della storia della letteratura.
Dalla vicenda del velo prende spunto Il velo nero, un "memoir" che intreccia e stratifica piani diversi per raccontare la stessa cosa, o forse mostra semplicemente come le varie parti di quest'opera – l'autobiografia, la letteratura, la storia famigliare e quella nazionale – siano legate da sempre in modo indissolubile. Moody parte così alla ricerca del suo antenato; e lo cerca scavando a fondo nel racconto di Hawthorne, con una perfetta analisi di questo curioso racconto dalla perfetta ambientazione di "western gotico". Ma inevitabilmente la cosa da studiare finisce per rivelare molto anche di chi la studia, e sollevando il velo misterioso del reverendo l'autore scopre al contempo anche molti particolari della propria vita, dei suoi avi più vicini, della propria famiglia, di come i Moody abbiano attraversato la storia e la geografia degli Stati Uniti diventandone un tassello piccolo ma importante.
O forse - come si intuisce nel finale – Moody, più che sollevare il velo, non fa altro che posarne uno su se stesso; e non parliamo della descrizione del curioso esperimento con cui l'autore ha voluto replicare le gesta del proprio avo, quanto del suo nascondere e rivelare. Certo, Moody non risparmia i particolari più personali, come il suo passaggio presso una struttura per malati mentali o l'accenno alla morte della sorella, che ritroviamo anche in altre sue opere. Ma forse per rivelare (appunto: ri-velare) occorre prima deporre un velo su ciò che si vuole raccontare; suggerire più che ostentare, accennare più che delimitare. Il reverendo dal volto coperto, improvvisamente discostato dal mondo degli uomini, acquisì una credibilità molto maggiore nella sua opera pastorale; egli portava infatti impresso sul volto il simbolo di un velo relazionale che tutti gli uomini sapevano di avere e che solo lui aveva il coraggio di esporre pubblicamente.
Ciò che più riesce a Rick Moody in questo romanzo è l'aver preso spunto dalla sua vita - e da quella del proprio avo - per raccontare una storia ben più grande di sé. Dicono gli editor che le case editrici sono invase da manoscritti di autori esordienti, e che per la maggior parte questi brogliacci sono zoppicanti autobiografie di cui, alla fin fine, non frega niente a nessuno, perfette contemplazioni solipsistiche del proprio ombelico. Ebbene, Il velo nero è quanto di più lontano si potrebbe immaginare da un'opera del genere: come il reverendo che dà inizio alla sua ricerca, Moody si pone dietro al velo del memoir e da questa sua posizione tutta particolare riesce paradossalmente a scorgere con più dettaglio la trame misteriose che intrecciano gli uomini e le loro storie, le nazioni e le famiglie che le compongono. Una storia che, alla fin fine, appartiene proprio a tutti, anche da questa parte dell'Atlantico.
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