Al netto delle tirate ideologiche, è sempre un grande piacere leggere un giallo di Bruno Morchio, per le trame non scontate, per gli scorci descrittivi della sua Genova, per i profili psicologici dei personaggi che di romanzo in romanzo si inseriscono nelle storie che racconta. Ad esempio, nell’ultimo suo titolo, “Nel tempo sbagliato”, edito da Garzanti, ritengo magistrale il ritratto che egli fa di Miroslava Rostova, chiamata con il diminutivo di Myra, una donna ucraina, arrivata in Italia in seguito al crollo dell’Unione Sovietica. Colta, intelligente, ambiziosa, Myra, in Italia, s’impegna negli studi fino a ottenere il dottorato con una tesi sugli epigrammi proibiti di Marziale la cui pubblicazione, poi, era stata contesa dalle riviste specializzate. Il tutto mentre, per guadagnarsi da vivere, si prestava a fare la entraîneuse in un night-club. Morchio chiarisce molto bene il lavoro della donna, che, se svolto professionalmente, non è quello, come comunemente si crede, della prostituta, bensì “nel somministrare all’avventore, debitamente mandato su di giri da un ipertravestimento erotico della vista, quante più bevande alcoliche possibile”, senza che questi, l’avventore, si permetta di andare oltre il godimento dello sguardo. E Myra, da questo punto di vista, bellissima, come lo era da giovane la cantante francese Sylvie Vartan a cui assomiglia, appetita dai clienti in quel lavoro per la sua essenza seducente, da questo punto di vista stava ben attenta a non compromettere la sua reputazione, mantenendo rigorosamente le distanze con gli avventori. Finché non ha trovato sulla sua strada Carlo Pizarro, un uomo benestante, impegnato nel campo della finanza, che se ne innamora e, dopo tante insistenze, riesce a sposarla, portandola via da quell’ambiente comunque problematico, difficile, duro.
Il romanzo comincia con Carlo Pizarro che va da Bacci Pagano, il detective privato creato dalla penna di Morchio, per denunciare la scomparsa da giorni della bella moglie, con la quale aveva passato gli ultimi, felici momenti d’amore, salvo che per un breve malessere della donna, per via del mare, nella loro barca ormeggiata nel porticciolo di Arenzano. Myra, subito dopo, sarebbe scomparsa, portandosi dietro tutti gli indumenti che aveva con sé, senza lasciare un biglietto, una spiegazione, del suo gesto. Il timore del marito è che possa essere stata risucchiata dall’ambiente del night-club, non sempre esente da infiltrazioni criminali che avrebbe potuto costringerla a tornare nel giro anche con minacce alla loro stessa vita o di chi amano.
Inizia da qui, con in mano solo una fotografia di Myra, che peraltro non comparirà mai personalmente, se non per evocazione e il ricordo di altri nel romanzo (e qui sta la maestria di Morchio nel far emergere in tutta la sua interezza l’immagine della donna) inizia l’indagine che porterà Bacci Pagano a battere tutte le piste che possano arrivare alla donna: il night-club, interrogando prima il titolare, quindi la collega e cara amica Paula, un’ungherese che non solo aveva lavorato con lei nel locale, ma anche condiviso l’appartamento prima che si sposasse, quindi il professore con il quale aveva dato la sua tesi di laurea e ricevuto l’incarico di assistente all’università e così via, fino ad arrivare con una telefonata ai genitori in Ucraina, preoccupati del suo anomalo silenzio, visto che li chiamava più volte nel corso della settimana. Un’indagine che abilmente Morchio alterna alla vita privata di Bacci Pagano, ora in fase di trasloco di abitazione e di ufficio, così come alla sua seria relazione con Mara, la psicologa infantile, nutrita di una reciproca voglia di indipendenza che li spinge a vivere separati, a incontrarsi, anche per far l’amore o cenette all’insegna del buon vivere (“la pescheria di Canneto il curto, il macellaio e la bottega dello stoccafisso in Soziglia, l’enoteca di Sottoripa, la frutta e la verdura dei miei amici genoani di via San Bernardo e le spezie della drogheria Torielli”) tutta roba di primissima scelta che difficilmente troverebbero, come non lo trovavano nei paesi a una dimensione economica, quella della miseria, salvo essere un oligarca del partito, i lavoratori dei paesi dell’est europeo, sottomessi all’ideologia di cui sembra essere nostalgico Bacci Pagano, che, al contrario di quelli, ahilui!, ha avuto la disgrazia di nascere e vivere in un paese di sporchi capitalisti, e di poter pasteggiare con una buona bottiglia di “pigato superiore della valle Arroscia” invece che con l’unico vinaccio disponibile passato dalla cooperativa sociale. E sarà nel corso di un paio di queste cenette con Mara, che inevitabilmente gli farà da spalla non solo grazie al suo acume professionale di psicologa ma anche per essere donna, che Bacci Pagano avrà l’illuminazione che lo porterà alla soluzione del giallo, tra i più belli che ha scritto. Per altro caratterizzato da una scrittura – descrizioni, dialoghi, scorci narrativi – meticolosa, densa e rapida allo stesso tempo, che mi ha riportato alla mente le pagine estremamente curate di un altro grande del giallo italiano, Renato Olivieri.
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