Hong Kong ai giorni d’oggi: fra le schegge di solitudine e cemento che puntellano la città, la squadra omicidi rinviene alcuni resti umani abbandonati in una discarica. Il solitario e rabbioso detective Cham Lau (Gordon Lam Ka-tung) si ritrova ad unire le forze con l’efficiente neo caposquadra Will Ren (Mason Lee) per dare la caccia a uno spietato serial killer. La loro strada incrocia casualmente quella di Wong To (Cya Liu), appena uscita di prigione e con un conto ancora in sospeso con Cham Lau. I tre finiranno sulla scia del misterioso omicida, tra le strade intrise di pece della notturna metropoli.
Girato in uno spettrale bianco e nero volto a esaltare la spietata efferatezza dell’incontro/scontro fra le persone, Limbo di Soi Cheang ha fra i suoi maggiori punti di forza proprio la rappresentazione di Hong Kong, ritratta come una claustrofobica discarica moltiplicata all’infinito, un mostro dal cuore nero dove ogni minimo dettaglio ̶ palazzi, appartamenti, distretti di polizia, strade, panchine ̶ appare come un cumulo di rifiuti ammassati con rabbia a sfidare il vuoto e le persone sono a loro volta ridotte alla stregua di macerie, spazi residuali sempre sull’orlo di sgretolarsi per via dei numerosi contraccolpi subiti ̶ calpestati, macinati, lasciati a fermentare in vista dello smaltimento finale, salvo poi ricomporsi e tornare a circolare liberamente nel polmone putrefatto della città.
Simbolo primario di questo crudo compostaggio urbano è Wong To, unica donna in un universo tutto virato al maschile. Racchiusa in un corpo insieme esile ed indistruttibile, Wong To vive letteralmente ai margini in un posto fatto di oggetti ammassati alla rinfusa proprio come in una discarica; in perenne fuga da tutto, sempre in corsa e col fiato strozzato per sfuggire ai colpi assordanti del mondo, la vediamo schizzare da una parte all’altra dello schermo con la sua fisicità tenace e colma di sofferenza, costantemente aggredita da tutti lungo l’intero arco della narrazione. A cominciare dallo sfogo ripetuto e dilaniante da parte di Cham per poi sfociare nella follia del serial killer, passando attraverso i colpi taglienti dei malavitosi che la inseguono, Wong To è insieme bersaglio di una brutalità cieca e possibile capacità di riscatto, apnea e respiro, in un mondo dove non è dato sopravvivere se non azzannando la paura e i rimorsi.
I pregi del film sono sicuramente accentrati sul ritratto chiaroscurale di Hong Kong e sulla straordinaria recitazione sull’orlo del collasso di Cya Liu, a cui fa da contraltare l’intensità livida di Gordon Lam ka-tung, bravissimo e senza un attimo di cedimento. Peccato che questi elementi così potenti si perdano in una descrizione un po’ forzata dell’universo psicologico del serial killer, ossessionato da improbabili simboli religiosi forse perché paradossale corpo estraneo (ossia straniero) in un mondo mutato in discarica, nonostante il suo modus operandi contribuisca ad alimentare la cloaca senza fine della città-mostro.
Non da ultimo, se è pur vero che il film affida al personaggio di Wong To un ruolo centrale, l’accanito sadismo con cui questo unico corpo femminile presente sulla scena (se si esclude il corpo morente della moglie di Cham, bloccata sul letto di un ospedale e dunque pressocché assente) viene colpito da abusi di ogni tipo, compresi quelli sessuali, rende il film (forse inconsciamente?) maschilista, riducendone la componente femminile ad un concentrato di dolore immotivato solo per una (presunta) catarsi e con la scusa di voler raccontare la deriva di una città ridotta a pattumiera. Perché nessuna catarsi potrà mai cancellare i torti subiti, né trasformare in profumo lo stomachevole miasma che accompagna ogni singolo fotogramma dell’esistenza.
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