Ospite della casa famiglia “Figli delle stelle”, Hana (Miyu Ogawa) conduce una vita silenziosa scandita da rituali semplici quali aiutare in cucina, salutare l’albero che i suoi affidatari hanno piantato per lei (ce n’è uno per ogni ospite della casa) e dare da mangiare al suo amato pesciolino rosso. Racchiuso in una bolla di vetro che lo isola dal mondo esterno ma con il desiderio di mare incastonato fra le pinne, l’animale è insieme simbolo dell’esistenza implosa su se stessa di Hana e cifra di una possibilità di riscatto, il suo guizzare nell’acqua simile a un anelito verso il respiro più ampio dell’oceano.
L’arrivo di una nuova bambina, Harumi, che rifiuta il contatto e l’attenzione delle altre persone, sembra incrinare il fragile equilibrio che Hana si è cucita addosso per scansare il dolore: come affacciandosi ad uno specchio, Hana vede in Harumi un ripetersi sordo e insensato di una vita fratturata da silenzi, che raccontano la violenza più delle parole. E nell’incontro con il dolore personale di Harumi (significativamente posto sempre fra parentesi e mai mostrato nella sua cruda brutalità), Hana si ritrova coscientemente ad andare incontro ai propri ricordi e al pensiero di sua madre Kyoko, chiusa in prigione per un caso di avvelenamento e segnata dalla follia. Forse, l’incontro con una solitudine forzata come la sua spingerà Hana a ricucire lo strappo con il passato e a spingersi verso la schiuma del mare che il mondo è grazie alla presenza schiva e palpitante di Harumi.
Autrice anche della sceneggiatura, con The Goldfish: dreaming of the sea la regista giapponese Sara Ogawa ci regala un film dai toni trasparenti e ineffabili, proprio come l’acqua del mare, raccontando l’incrinarsi della vita nella follia e nella violenza di due bambine presenti sulla scena e di due donne assenti se non nei ricordi o nei gesti causati. Nella sua recitazione quasi “sottovetro”, Miyu Ogawa riesce ad esprimere tutta la potenza del dolore non detto e irrisolto, puntellando i suoi gesti e i suoi sguardi con tutta la fatica che il contatto anche solo accennato con un’altra persona può comportare, quel fermo abbracciare un cambio di rotta che possa sgonfiare davvero la bolla del passato e far defluire la vita altrove, aperta e senza barriere. Soprattutto, il film ci insegna come per superare le proprie fratture interiori spesso sia più importante lasciarsi attraversare dalla vita di qualcun altro e dall’empatia che non continuare a collassare sui propri pensieri, perché come acqua questi sono destinati a scorrere via, e quel che rimane alla fine è il nuotare nella vita stessa, per accoglierne le improvvise sfumature.
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