Dal 24 giugno al 2 luglio 2021, in doppia modalità fisica e online, si è tenuta la ventitreesima edizione del Far East Film Festival di Udine, importante vetrina del cinema popolare asiatico. Caratterizzata da uno slogan ̶ moving forward ̶ che è insieme un augurio e una dichiarazione di intenti per un mondo che sfida apertamente il Covid19 lottando per la vittoria, non a caso la rassegna ha avuto fra le sue tematiche ricorrenti quella dello sport, con film che spaziavano dal pugilato (ad esempio il dittico giapponese Under dog Part I and 2 di Take Masaharu oppure l’hongkonghese One Second Champion di Chiu Sin-hang) alle specialità paraolimpiche (Zero to Hero di Jimmy Wuan, altro film da Hong Kong).
Non sono però mancati i noir, come vuole la tradizione FEFF, e proprio di genere noir sono due tra i film premiati quest’anno: Hand rolled Cigarette di Chan Kin long, Gelso Bianco alla migliore opera prima, e Limbo di Soi Cheang, Gelso Viola-Premio speciale della piattaforma Mymovies, entrambi hongkonghesi e curiosamente aventi per protagonista lo stesso attore, un grandissimo Gordon Lam Ka Tung.
Inspiegabile invece, almeno per la sottoscritta, il Gelso d’oro ad un film scialbo e banale come Midnight Swan di Uchida Eiji, che dovrebbe secondo gli intenti descrivere la difficile realtà delle donne transgender giapponesi nella loro transizione male to female e nello scontrarsi continuamente con una società che non le capisce e non le accetta. Ben diverso nei toni e nei contenuti rispetto al leggiadro eppur fortemente politico (ugualmente giapponese e vincitore del FEFF, nel 2017) Close-knit di Naoko Ogigami, non solo il film di Uchida non dice nulla di interessante ed intelligente sulla comunità trans gender nel Sol Levante; a ben vedere, essendo posta a conclusione del mese di festeggiamenti del Pride da parte della comunità LGBTQ+ di tutto il mondo, la sua vittoria suona un po’ come una beffa. Di orgoglio in questo film ce n’è ben poco, trionfano invece l’autocommiserazione, l’insulto e l’annichilimento: se in molti film horror la diversità ha la sola funzione di essere esorcizzata e infine cancellata, in Midnight Swan l’incontro con la comunità transgender serve solo come tappa temporanea per portare la protagonista al trionfo, perché lei è in fondo l’unica donna “vera” nella storia narrata e per questo merita di brillare e farsi strada nella vita e nell’arte. Un film rassicurante che reinstaura lo status quo eteronormativo, di fatto uno schiaffo morale e politico per quantǝ lottano per essere riconosciutǝ come persone e non più vittime di abusi fisici e verbali, crimini per i quali in molti paesi del mondo le persone LGBTQ+ non sono ancora protettǝ.
Mancando i grandi film epici a tematica storica (ad eccezione dell’agiografico 800 eroi di Guan Hu, palesemente rimodellato dalla censura governativa cinese), personalmente ho preferito concentrarmi su opere che fossero in grado di raccontare qualcosa di insolito o di narrare la realtà da un punto di vista potenzialmente differente. Seppur non dei capolavori e spesso ammantati da un alone di dejà vu, alcuni di questi film meritano sicuramente una riflessione per come cercano di insegnarci a vedere l’altro che si cela fra le pieghe del quotidiano e della conversazione. Tra i film per me più belli di questo FEFF 23, nessuno di loro celebrato da premi, includerei sicuramente Ito di Yokohama Satoko, un piccolo scorcio sul continuo cercare un modo onesto e “puro” per negoziare uno spazio tutto per sé tra il silenzio e la musica, le parole e l’adolescenza, l’essere donna e lo scontrarsi con la società maschilista giapponese contemporanea.
Uno sguardo finalmente spostato dalla grande metropoli futuristica alla vita precaria e “fluttuante” del paesaggio rurale cinese ce lo offre invece Like Father and Son di Bai Zhiqiang, un incontro ruvido tra un bambino senza famiglia e un uomo rimasto solo, entrambi alle prese con la sopravvivenza sullo sfondo di una Cina lontanissima dall’efficienza touchless e ipertecnologica che sembra ormai essere irreversibile segno di progresso in luoghi come Pechino o Shanghai.
Forse non altrettanto riusciti ma comunque interessanti sono The Way We Keep Dancing di Adam Wong, parabola discendente di un gruppo di ballerini di Hong Kong alle prese con la macchina infernale dell’edilizia urbana, The Goldfish: Dreaming of the Sea di Ogawa Sara, storia di una doppia sofferenza tutta al femminile per una bambina e una adolescente protette dalle mura di una casa famiglia ma non dai ricordi e dai lividi.
Ultimo, ma non per questo meno importante, citerei anche Wheel of Fortune and Fantasy di Hamaguchi Ruysuke, verboso trittico sulle casualità dell’amore, del perdersi e del trovarsi: con apparente leggerezza e un brio intellettuale che ho trovato molto simile a Thirteen Conversations about One Thing di Jill Sprecher, nonostante un primo episodio un po’ ingenuo e un secondo un po’ troppo esplicito (seppure il sesso sia qui esclusivamente parlato e mai mostrato, mi sembra che l’incursione nell’erotismo spinto contraddica tutto l’impianto del film), l’opera sboccia improvvisamente con il terzo e ultimo episodio, un vero gioiello di bellezza e di umanità improvvisata colta nel suo interpretare emozioni vere pur sapendo che forse il confine tra vero e falso, persistenza del ricordo ed evanescenza del presente, non è poi così importante, soprattutto se permette almeno per un istante di sovrascrivere il dolore e l’oblio con l’improvviso sussulto del rinascere. Che è poi il vero fulcro della vita di tuttǝ noi, ciò che ci permette di andare avanti, moving forward, come il FEFF.
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