Conosciamo Bianca da bambina. La vediamo crescere in un appartamento brutto e disordinato, con una madre, Candi, alcolista e fredda e un padre, Giovanni, affettuoso e attento con il quale instaura da subito un rapporto esclusivo in cui la madre, già poco avvezza di suo a dimostrazioni d’affetto, è incapace di inserirsi. Bianca cresce e con lei il muro che per forza di cose ha dovuto erigere, un muro che non permette di entrare ma neanche di uscire. La vediamo attraversare a grandi falcate quegli anni 80 che sono e saranno per sempre nel mio cuore, a ricordare a chi li ha vissuti alcuni dei fatti che li hanno segnati, la strage della stazione di Bologna, la carneficina delle Colombine, l’avvento del cellulare, il mostro di Firenze Pacciani e i suoi amici di merende, la scomparsa di Emanuela Orlandi, la nascita di Madonna, la strage del Salvemini e quella del traforo del Monte Bianco. Marilù Oliva è molto brava a seminare fatti e conoscenza senza sedersi in cattedra e dare lezioni, senza prendere parti ma semplicemente narrare quello che è stato, quello che in qualche modo ha segnato noi che lo abbiamo vissuto. Vediamo poi, la nostra Bianca, diventare donna con un bagaglio culturale che è il solo frutto della sua curiosità e della sua voglia di essere, nonostante tutto.
Lili vive l’esperienza orribile, mostruosa del campo di concentramento di Buchenwald. Sono le pagine che fanno male, quello che è successo in quei campi è quanto di più aberrante sia mai successo nella storia ed è graffio che non si rimargina e non si rimarginerà mai.
“Buchenwald significa proprio bosco, per la precisione bosco di faggi. Un nome tanto poetico per designare un pezzo di terra collinare delimitato da doppio filo spinato attraversato da corrente ad alta tensione, dove accadeva l’inammissibile. Quel lager inanellato dalle foreste smeraldo della Turingia aveva il potere di stendere una patina plumbea anche sui giorni di sole. Il suo epicentro era una quercia dove un celebre poeta che io non conoscevo, Goethe, era solito, il secolo precedente, recarsi per comporre le sue opere. Nel tragitto dalla baracca al campo di lavoro, osservavo una delle torrette di controllo, da cui avvistavo una sentinella con mitraglia, e mi domandavo chi avesse mai potuto ideare un luogo dimenticato da Dio come quello. Dio non vedeva, la gente attorno non vedeva. L’invisibilità era la sua carta vincente. Eppure anche di notte grandi fari illuminavano a giorno il campo. Come è possibile che davvero nessuno si sia accorto di niente, di questi fantasmi che entrano ed escono dal recinto e poi scompaiono per sempre? O del fumo che sbuffa dalla ciminiera dei forni crematori, a pochi metri dal cancello principale?”
La scrittura magnifica di Marilù Oliva mi ha scossa nel profondo ed è andata a stanare emozioni che mi sono portata dietro per tutto il libro e alla fine sono sfociate nelle lacrime. Ho pianto sorridendo ed è stato bellissimo. Grazie Marilù Oliva
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