Alexandros Papadiamandis è uno scrittore greco immerso nell’800. Nato a Skiatos nel 1851 è morto nel 1911. Il suo capolavoro è ritenuto il romanzo breve “L’assassina”, pubblicato dalla casa editrice Aiora di Atene, la cui missione è quella di far conoscere, in traduzione, opere di autori greci per il pubblico italiano. In questo caso, autore della traduzione è il compianto Francesco Màspero (1921-2016), che è stato ordinario di filologia greca e latina all’Università Statale di Milano e all’Università Cattolica del Sacro Cuore.
In “L’assassina” Papadiamandis ci racconta una storia profondamente immersa nel mondo rurale e pastorale greco. Una storia che comincia in una povera capanna di un’isola greca. All’interno di essa una vecchia, Chadula, che tutti chiamano Frangojannu, veglia sulla sua nipotina e sulla propria figlia, debole e assopita, che quella bimba ha partorito a fatica undici giorni prima. Chadula ha alle spalle una vita di stenti e sofferenze e, nella veglia, riflette sul destino che spetta alla nipotina, venuta al mondo già inferma, con la pertosse che la scuote tutta. Non si sa se resisterà, così piccina. Ha senso che viva? Si chiede la nonna. Per che cosa, per fare una vita grama come la sua, e come quella delle figlie che lei ha messo al mondo? E’ una femmina: questa è la sua condanna! E con la memoria Chadula rivede se stessa “Da bambina” ricorda “era stata serva dei suoi genitori, poi, divenuta adulta, dopo il matrimonio, del marito (…) E dopo la nascita dei figli era diventata la serva dei figli e infine dei nipoti”.
Chadula ripercorre tutta la sua vita: i maschi che ha avuto dal matrimonio non sa che fine hanno fatto, emigrati in America, uno di essi è in carcere per risse e accoltellamenti (tra l’altro anche di una sorella, che poi è stata costretta a mentire alla polizia per nascondere l’onta di un fratello che accoltella una propria sorella). Ricorda i suoi genitori, la madre cattiva, egoista, che rubava i soldi al marito ubriacone (e lei Chadula che, scoperto il nascondiglio in cui la madre raccoglieva il denaro, lo rubava a lei) e, dopo, una volta sposata, le mille difficoltà accanto a un marito debole, che l’hanno spinta a improvvisarsi strega, ostetrica, erborista e serva a ore per sopravvivere, per mettere da parte qualche soldo.
Le femmine sono un peso fin dal momento in cui nascono, pensa Chadula. “C’erano madri con sei femmine e neppure un maschio, un’altra di figlie ne aveva sette e un unico maschio, in possesso di tutte le caratteristiche per dedurre che sarebbe diventato un bel fannullone. Tutti questi genitori, pensava Frangojannu, tutte queste famiglie, tutte le vedove avevano la necessità assoluta di maritare le loro figlie e queste potevano essere anche cinque, sei, sette! Questo fatto gravava su ogni famiglia povera e in particolare su ogni madre rimasta vedova in possesso al massimo di due pertiche di terreno e di una misera casetta”. Così Chadula pensa al sacrificio che anche la figlia, ancora in attesa di riprendersi dal recente parto, dovrà fare per tirare su quella creaturina. Fin dalla sua venuta al mondo dovrà trovare il modo di metterle su una dote, il prezzo che dovrà pagare perché un uomo se la sposi: una casa e la cosiddetta tebla, la pila di lenzuola, coperte, piumini, guanciali, che bisogna bene mettere in vista agli invitati al matrimonio, perché non si parli male della famiglia.
Che angoscia… ed ecco, ecco cosa fare per liberare definitivamente la nipotina da quel triste destino che l’aspetta, tra l’altro adesso sta male, sta già soffrendo, e la nonna, in un gesto che lei crede di generosità, pone le mani intorno al collo della piccina… Quando la figlia si sveglia e vede la bimba apparentemente assopita dice alla madre: “Avrei preferito che fosse sveglia per allattarla”. Ma la risposta della madre la ghiaccia: “Non preoccuparti, troveremo un altro bambino”, e la figlia: “Ma che cosa stai dicendo, mamma?”. E capisce. Ma non immagina come sia morta, a dispetto dei lividi che ha intorno al collo. Un medico giovane, inesperto, chiamato a redigere il certificato di morte interpreta la causa dovuta alla pertosse.
Ma poi accade che un’altra piccina, in presenza di Chadula, chiamata per portare i suoi medicamenti, muoia. E un’altra ancora, ma per questa in realtà Chadula non c’entra, però ormai ha la fama. E allora qualcuno avverte la polizia che prende a cercarla e Chadula fugge, si nasconde. Ma, nella miseria che abita il mondo, la sua fama di “assassina” torna utile… un pastore, che si ritrova col peso di una figlia femmina appena nata, la cerca perché desidera che Chadula vada a casa da lui. Non servono molte parole perché porti le sue erbe miracolose… “E’ già la terza figlia che abbiamo in cinque anni… tutte femmine, purtroppo… devo poi dirti che questa è venuta al mondo malata: piange in continuazione e non vuole attaccarsi al seno materno. Ma neanche la madre, poveretta, sta molto bene… se tu volessi farci il favore di passare dalla nostra capanna e darle qualche tisana…”
Chadula ci va, avrà anche l’ospitalità per la notte e poi, quando i gendarmi saranno alla porta, il pastore le indicherà la via di fuga, la grotta dove nascondersi…
Il racconto prosegue in un crescendo di angoscia, Chadula che fugge, i gendarmi che la inseguono, anche una guardia forestale del suo paese, ma la vecchia è troppo utile, e la guardia svia i gendarmi, a cui si era unito, perché non arrivino alla donna… Troppo utile, quasi fossero, le sue, opere di bene. Ma Chadula non fugge solo dai gendarmi, fugge anche da se stessa. Raggiunge anche un eremo, dove incontra un prete “Ah, padre… mi tormentano grosse pene e dispiaceri” parole alle quali incontra la comprensione del prete attraverso i salmi che lui le recita. Chadula imputa la sua fuga alla malvagità della gente, alle male lingue e all’invidia dell’uomo. E il prete “Sommergili, Signore, perché ho visto regnare nella città l’illegalità e la discordia”.
Torna nella casa dove aveva messo le mani al collo a una bambina, per riprendersi l’acqua e il paniere che vi aveva dimenticato, e le danno riparo fino al mattino, quasi riconoscenti… Come se quelle morti innocenti li risollevasse dalla disperazione, tale è la povertà nella coscienza di non avere null’altro da dare, certi di condannarla, lasciando in vita la propria creatura, a un lungo avvenire di sofferenza… Ma la soluzione non è quella di Chadula e di quanti la chiamano alle culle, perché la colpa invade tutti, pone domande a cui, se l’ignoranza non da risposte, le dà però la fustigazione del proprio animo, fustigazione di cui l’inseguimento persecutorio, insistente, dei gendarmi è solo una rappresentazione esterna dei fantasmi che agitano la donna dentro di lei, in un continuo confronto con il Male, dando vita, per riprendere le parole che Mario Vitti ha dedicato a questo personaggio nella sua “Storia della letteratura greca”: “a una figura esaltata, blasfema, che mischia Dio ai propri delitti, e la sua mentalità elementare che non esita a conciliare la colpa con il volere divino” assegnandole una dimensione dostoiewskiana, in una lingua che tiene presente la tradizione bizantina e che l’autore “vuole sua, insieme a tutto il rituale ortodosso e a tutte le istituzioni tradizionali sulle quali è fondata la Grecia”. Una Grecia che la mia stessa esperienza personale mi ha fatto conoscere anni e anni dopo la stesura del racconto di Papadiamandis, quando, incontrando in un’altra isola un pastore, padre già di una bimba e del quale sapevo la moglie prossima al parto, chiedendogli notizie, disperato mi rispose che era nata un’altra bambina. Ovvero, racchiuso nel tono di quella risposta, la necessità, con quella nascita, di un’altra casa da tirar su e un’altra dote, le pila di lenzuola, di coperte, i guanciali, da portare all’uomo che un giorno, prima possibile, la impalmerà.
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