In un futuro prossimo, la Terra è in parte ridotta in cenere per via di enormi incendi causati dall’irresponsabilità del comportamento umano. Per sfuggire all’ansia di una vita ormai impossibile, molti decidono di allontanarsi dallo sfacelo e trasferirsi su Marte attraverso tre settimane di viaggio sulla nave da crociera spaziale Aniara. Alcune fra le persone a bordo però non sono lì come passeggeri: Mimaroben, da tutti chiamata MR (Emelie Garbers),
è ad esempio una donna single che lavora sulla nave. A differenza di figure chiave come il comandante Chefone (Arvin Kananian) o i piloti, fra i quali l’enigmatica e fredda Isagel (Bianca Cruzeiro), MR si occupa invece di una delle attrazioni della nave: Mima, un’intelligenza artificiale racchiusa dentro uno schermo simile a uno specchio in grado di simulare e visualizzare i paesaggi terrestri com’erano un tempo (prima del disastro ambientale) in base ai ricordi dei visitatori, regalando così un piccolo momento di innocuo relax ai passeggeri annoiati in cerca di nuovi svaghi. Considerata un’attrazione di secondo piano oscurata dalla marea di piscine, discoteche, campi da baseball e altre strutture presenti sulla nave, Mima rappresenta per MR una sorta di isola felice, un angolo di serenità dove rifugiarsi nei momenti di solitudine più atroce, e anche se nessun altro sembra apprezzarne la bellezza, visto il numero esiguo di visitatori che scelgono di entrare nella stanza, MR svolge il suo lavoro con cura e amorevolezza, mostrando rispetto per lo specchio che le permette di entrare e respirare nel luogo sicuro e felice dei ricordi, diventando l’unico posto dove forse riesce a sentirsi viva. Un incidente imprevisto porta però ad un ribaltamento radicale della situazione: il capitano Chefone annuncia che la durata del viaggio verrà prolungata a due anni per problemi tecnici, e in attesa di raggiungere un corpo celeste di cui sfruttare la gravità per poter tornare sulla traiettoria giusta e riprendere il viaggio verso Marte, i passeggeri e l’equipaggio dovranno cercare di abituarsi a vivere sulla nave per più tempo del previsto.
Il panico comincia a prendere il sopravvento, soprattutto quando l’Astronoma (Anneli Martini) rivela come non sia possibile incontrare nessun corpo celeste, perché non ne esiste nessuno lungo la rotta percorsa da Aniara: all’improvviso, tutti vogliono rifugiarsi nel mondo simulato creato da Mima, quasi fosse l’unica ancora di salvezza rimasta in una vita prossima all’apocalisse. MR si ritrova impotente di fronte all’inesorabile fame di rassicurazione e certezza che prende d’assalto la mente dei passeggeri e dei piloti; nonostante la sua richiesta di avere degli assistenti che possano aiutarla a gestire la situazione venga alla fine accolta da Chefone, MR si rende conto che l’ingordigia umana rischia di annientare Mima, di cui comincia a sentire i lamenti pronunciati ad alta voce in un linguaggio intriso di dolore che soltanto lei riesce a sentire. A nulla valgono le sue proteste, mirate a far riposare Mima per una settimana; Chefone non cede, e alla fine MR vede l’incubo da lei preannunciato prendere vita davanti ai suoi occhi: disgustata dall’avidità degli umani, che nutrendola senza sosta dei propri ricordi le causano sofferenza, Mima compie un suicidio, spegnendosi per sempre perché sopraffatta dall’onnipresenza umana.
Quella fin qui narrata, che in un film minore o di poche pretese costituirebbe l’intero arco della struttura narrativa, è in realtà soltanto l’incisiva premessa di un film di assoluta e luminosa grandezza quale Aniara è: diviso in capitoli volti a scandire il tempo passato e insieme l’evoluzione e/o imbarbarimento della vita sulla nave fra culti religiosi (curiosamente non dissimili per significato a sequenze viste in un altro film di coproduzione svedese, Midsommar), trasmissione del sapere scientifico alle giovani generazioni, ricostruzione di un (im)probabile futuro dell’umanità in una bolla sospesa nello spazio e costruzione di un amore, questo film nordico ci spiega in maniera molto più eloquente e asciutta di tante produzioni americane sci-fi (fra tutte la sopravvalutata serie televisiva Westworld) come il peggior virus mai scoppiato e diffuso nella vastità dello spazio sia nient’altri che l’essere umano, creatura egoista incapace di distaccarsi dai propri pensieri a cerchi concentrici ma anzi tenacemente aggrappata ad essi, arrivando addirittura ad esaltarli a credo infallibile camuffandoli per divinità o entità superiore in grado di “darci la luce”.
Cos’altro è Mima in fondo, se non un’eco infinita delle speranze umane, mescolate all’inevitabile sete di auto-distruzione che ogni essere umano si porta dentro, incisa nel proprio DNA? Tutto, sembrano dirci i due registi del film Pella Kagerman e Hugo Lilja (autori anche della sceneggiatura, ispirata all’omonimo poema fantascientifico distopico di Harry Martinson, pubblicato nel 1956), risulta alla fine vano, perché vanificato dalla stupidità della mente umana, incapace di vedere oltre e, per dirla con le parole di Elémire Zolla, di dire a se stessa e alle altre menti che ha attorno “uscite dal mondo”, ma anche, in questo caso, abbandonate ogni idea della Terra e di ciò che è stato; non chiudetevi nel sarcofago dell’arido solipsismo, barricati fra specchi che vi rigettano contro soltanto il riverbero di quello che non c’è più. Un’opera quanto mai attuale, che apre una riflessione sulle storture e imperfezioni della mente umana e sulla impossibilità di trascenderla attraverso le intelligenze artificiali, con buona pace di Bryan Johnson e di altri futuristi della scienza contemporanea intenti a declamare con ottimismo le delizie del brain reboot e brain interface come soluzioni a tutti i nostri mali peggiori quali depressione, alcolismo e Alzhemeir. Un vero capolavoro che invoglia a riscoprire l’opera poetica di Martinson e che delinea con precisione agghiacciante la discesa verso il nulla siderale dell’esistenza umana.
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