Suk Suk (叔叔, “zii”, o comunque amici e/o famigliari di una certa età in cantonese) narra l’incontro fra due anziani uomini (a cui l’appellativo affettuoso del titolo appunto si riferisce), Pak (Tai Bo) e Hoi (Ben Yuen), entrambi gay ma costretti a nascondere la propria vera natura (lasciata quindi in the closet) a causa dei pregiudizi socio-culturali subiti dalle persone LGBTQ+ ad Hong Kong. Incontratisi per caso durante il consueto giro di cottaging di Pak, i due si ritrovano altrettanto casualmente una seconda volta e finiscono per vedersi regolarmente, ritagliandosi un po’ di intimità in una sauna gay o a casa di Hoi quando il figlio e la nipote non ci sono, o semplicemente scoprendo la bellezza del passare del tempo insieme camminando per il mercato del pesce o andando nei ristoranti. Benché molto diversi caratterialmente, Hoi e Pak entrano subito in sintonia e confrontando le proprie esperienze di gay maturi sempre costretti a nascondere se stessi agli altri, soprattutto alle rispettive famiglie, capiscono di avere molti punti di contatto: Hoi, già pensione, è divorziato e ha cresciuto il figlio da solo dopo che la moglie lo ha abbandonato perché “sconvolta” dalla suo essere gay; Pak invece lavora ancora e fa il tassista, è sposato e ha due figli. Anche se il primo ha scelto di seguire la propria natura fin dall’inizio mentre il secondo ha preferito aspettare che i figli fossero grandi per esprimere se stesso, anche se esclusivamente in incontri casuali, Hoi e Pak sono accomunati dal peso insormontabile del non sentirsi accettati dalla famiglia e dalla cultura dominante, soffocando dunque sul nascere ogni sogno o anche solo vago accenno di poter essere liberamente ciò che vorrebbero. Con una differenza, però: esclusi gli incontri sessuali anonimi, Pak non ha mai avuto un contatto reale con la comunità gay di Hong Kong, visto che non ha amici gay e non frequenta saune gay (infatti sarà Hoi a portarlo lì per la prima volta, benché Pak dice di aver frequentato qualche volta da giovane un luogo storico del gay cruising ad Hong Kong, Yuk Tak Chee). Pak tutto sommato sembra soddisfatto della propria vita, nei confronti della quale non ha rimpianti; Hoi invece ha tutti amici gay, fra i quali spiccano Chui (Kong To) e Dior (Chu Wai-keung), entrambi out and proud nonostante le continue discriminazioni a cui far fronte, e oltre a conoscere un po’ tutti alla sauna, di tanto in tanto partecipa anche a delle riunioni al Fok Yau Ling Community Service Centre, dove gli anziani gay si ritrovano e i volontari cercano di convincerli a presenziare ad una sessione del parlamento locale per far approvare l’apertura di una casa di riposo gay gestita da giovani gay. Insomma, Hoi sembra perfettamente integrato nella vita sociale della gay community di Hong Kong nonostante le sue remore ad uscire allo scoperto; infatti, al volontario che gli propone di diventare uno dei portavoce del gruppo per perorare la causa di riposo per gay anziani, continua a rispondere: “non voglio che la mia famiglia sappia di me”. Pak sembra molto distante dalla realtà quotidiana di Hoi, ma quando l’affiatamento fra i due diventa forte e Pak decide che è arrivato il momento di andare in pensione, l’ipotesi di una vita da poter vivere insieme apertamente sembra davvero prendere corpo. C’è persino un inaspettato regalo da parte del figlio di Pak, una rendita mensile “per goderti finalmente la vita”, a suggerire con maggior forza che è arrivato il momento di vivere i sentimenti “con dignità” e senza vergogna; riusciranno dunque la verità e il desiderio a prendere il sopravvento e travolgere il buio della paura una volta per tutte?
Scritto e diretto da Ray Yeung, Suk Suk a prima vista è una storia d’amore dall’atmosfera un po’ rétro in pieno stile cinema hongkonghese anni ‘80, con tanto di theme song ricorrente che accompagna i momenti clou dell’avvicinamento sentimentale ed esistenziale fra i due protagonisti; in realtà, il film è molto più che una “semplice” storia d’amore, ma è soprattutto un’opera politica, che cerca di dare voce alla tematica LGBTQ+, ancora considerata tabù nella mainland China (ma non a Taiwan, dove dal 2019 esiste una legge che ha reso legali i same-sex marriages, e forse per questo la vediamo omaggiata da una cartolina-cimelio del passato di Hoi in una scena del film) ma oggetto di faticose e coraggiose battaglie ad Hong Kong (ma anche nella vicina Guangzhou, storica roccaforte di estrema sinistra in Cina ad inizio ventesimo secolo e ora, insieme a Pechino e Shanghai, epicentro della lotta politica LGBTQ+ nella mainland). Un film che ci spiega quanto il coming out possa essere difficile non per i figli nei confronti dei genitori, ma per i genitori (e i nonni) nei confronti dei figli, cosa che lo rende particolarmente importante per il suo spostare l’attenzione della tematica dell’orientamento sessuale su una fascia d’età solitamente poco analizzata. Ma Suk Suk è anche uno sguardo amorevole e un abbraccio alla città di Hong Kong, alle sue persone, i suoi luoghi nascosti e i suoi usi, come lo yuen yeung (provatelo assolutamente!!), metà thé e metà caffè uniti dal latte, forse un’allusione all’incontro perfetto fra Hoi e Pak ma anche un segno della volontà di mostrare Hong Kong non più come arido cultural desert e teatro di fatui blockbuster senz’anima (come quelli di Wong Jing) ma neanche come (non) luogo post-moderno, “a borrowed place on borrowed time” visivamente celebrato dall’estetica frammentaria del cinema della post-new wave (fra tutti, quello di Wong Kar-wai).
Complici le lotte di resistenza al controllo sempre più serrato del governo centrale di Pechino sulla realtà dell’isola ̶ proprio pochi giorni fa, il 1 luglio 2020, nel giorno dell’anniversario della restituzione dell’ex colonia britannica alla Cina, è stata approvata una nuova legge sulla sicurezza nazionale volta a legittimare la violazione delle libertà civili e sociali delle cittadine e dei cittadini hongkonghesi se sospettati di “attività sovversive”, ossia contrarie alla macronarrazione unica (e, fra le altre cose, rigorosamente eterosessuale) del governo centrale ̶ Suk Suk si pone anche come grido di battaglia di una città che vuole coscientemente scoprire e valorizzare i propri tratti distintivi nel momento in cui il braccio violento del potere minaccia di spazzarli via. Forse anche per questo, il film è stato ripagato nel suo amore per Hong Kong dal sostegno amorevole del pubblico, che ne ha fatto un successo sia al botteghino che agli Hong Kong Film Awards, dove si è aggiudicato due premi fra i quali al Miglior Attore per Tai Bo, premiando un film indipendente interamente recitato in cantonese, senza la longa manus delle case di produzione mainland a corromperne il messaggio finale. Mostrato anche al FEFF 22, purtroppo il film ha risentito di una proiezione unica su una fascia oraria davvero infelice (le 17:30 del pomeriggio, ed era l’unico film ad avere l’obbligo di essere visto a questo orario così proibitivo), cosa che ne ha sicuramente compromesso la visione al pubblico più ampio di prima serata che invece avrebbe meritato. Positiva comunque la volontà degli organizzatori del festival, com’è ormai tradizione da alcuni anni, di inserire un film a tematica LBGTQ+ nella selezione ufficiale, come già accaduto con The Rib di Wei Zhang (dall’edizione FEFF 21) o Close-knit di Naoko Ogigami (che vinse anche l’Audience Award nell’edizione FEFF 19). Suk Suk avrebbe meritato una menzione speciale, o almeno una visibilità maggiore. Da vedere assolutamente.
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