Manila, Filippine: il giovanissimo Edward (Louise Abuel), bloccato suo malgrado nell’ospedale dove il padre Mario (Dido De la Paz) è ricoverato, cerca di passare le giornate come un adolescente qualunque farebbe in circostanze normali, e anche se giocare e scherzare in un luogo simile non è certo una cosa facile, Edward sembra fermamente intenzionato a vivere la propria età con spensieratezza e incurante stupidità: insieme all’amico Renz (Elijah Canlas), passa le giornate girovagando in cerca di possibili passatempi, alternando gare di velocità per i corridoi a bordo di una carrozzella a scommesse su quali pazienti del pronto soccorso moriranno o sopravviveranno, concedendosi una sigaretta ogni tanto o sbirciando da lontano i cadaveri nudi delle ragazze dalla porta socchiusa dell’obitorio, lasciandosi prendere da una risata imbarazzata mentre Renz gli rivela l’esistenza di un traffico porno a sfondo necrofilo gestito illegalmente dal personale maschile dell’ospedale. Poco importa che le infermiere, capitanate dall’agguerritissima Daisy (Sarah Pacaliwagan-Brakensiek), gli chiedano continuamente di svolgere dei piccoli lavori di pulizia e assistenza al padre ma anche agli altri degenti ammassati lungo i corridoi e nei vari reparti, vista la carenza di personale paramedico: quella al momento è la sua casa, e finché il fratellastro Renato (Manuel Chua) non tornerà da Nueva Ecjia per firmare le carte e far dimettere il padre, Edward non può fare altro che aiutare come può, ammazzando il tempo di giorno fra scherzi, assistenza e improbabili passatempi e approfittando dell’ospitalità gratuita ospedaliera di notte, visto che gli viene concesso (come a tutti gli altri parenti dei pazienti ricoverati) di dormire sul pavimento nudo sotto il letto del padre, con la valigia piena dei suoi effetti personali a fargli da cuscino.
Tutto sembra procedere al meglio, considerata la condizione temporanea del sostare divertito e incosciente del ragazzo in ospedale; poi, un giorno, fra i pazienti da controllare spunta fuori Agnes (Ella Cruz), come Edward adolescente ma chiaramente più avvezza alle avversità della vita: sola al mondo e senza una fissa dimora, Agnes si dice fortunata per essere capitata in ospedale, perché lì ha tre pasti caldi e un letto assicurati tutti i giorni, mentre nel mondo fuori le cose sono molto diverse. Edward non sembra consapevole dell’asprezza celata nei modi rudi e un po’ spicci di Agnes, ma si sente comunque fortemente attratto da lei per ingenua curiosità, probabilmente perché è l’unica ragazza giovane in un luogo fatto di malati e di anziani e questo la rende speciale ai suoi occhi. Finalmente, sente di aver trovato un motivo vero per passare le giornate in ospedale, non più sospeso fra l’arrivo del fratellastro e la decisione dei medici di far ritornare a casa suo padre o meno. Partito come un piccolo accenno di flirt in un luogo improbabile fatto di attesa e di morte, l’incontro con Agnes si rivelerà essere molto più che un semplice diversivo, ma ciò che Edward non immagina ancora è che l’amore (o qualsiasi cosa sia il legame fra lui e Agnes) non può bastare per travalicare le asperità del quotidiano. Il ragazzo si ritroverà dunque di colpo a dover fare i conti con se stesso e con la strada sempre più a senso unico della propria vita, e quegli stessi passatempi che un tempo sembravano così innocui e inoffensivi sveleranno la propria crudele spietatezza, in un epilogo amarissimo e senza speranza.
Prodotto da Joyce E. Bernal e diretto da Thop Nazareno, “Edward” è chiaramente un film di denuncia sulla mancanza di prospettive per molti giovani del mondo, travolti dalla povertà e dalla mancanza di scelta e messi con le spalle al muro dalla vita prima ancora di poter capire veramente cosa stia loro accadendo. Forse oscurato dai tanti film giapponesi e sudcoreani presenti nella selezione ufficiale del FEFF 22 e sui quali gli organizzatori sembrano aver puntato di più i riflettori (forse perché, insieme alla Cina mainland e Hong Kong, Corea del Sud e Giappone rappresentano la fetta maggiore del mercato cinematografico dell’Estremo Oriente), per quel che mi riguarda “Edward” è stato uno dei film più belli del festival, una piccola gemma dall’impatto fragoroso, narrato in modo asciutto ed essenziale senza una parola o un’immagine di troppo e spiegando in modo diretto l’atroce banalità della povertà e il modo impietoso con cui essa è capace di sbranare ragazzi piombati troppo in fretta nell’età adulta. Ritengo che “Edward” sia un coraggioso racconto di non-redenzione e insieme uno sguardo su come il risvegliarsi nel mondo adulto e le sue regole spietate possa essere durissimo per un ragazzo che deve ancora imparare a riconoscere il proprio ruolo nel mondo e a capire cosa voglia veramente dire essere vivi. In un’era (e una parte del mondo) come la nostra, distratta da imperativi frivoli come l’iperconnessione o il successo, un film del genere può aiutarci a sentire e vedere le cose per ciò che sono, non per come vorremmo che fossero.
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