Lento vuol dire preciso, preciso vuol dire veloce.
Parole di Bob Lee Swagger, implacabile cecchino dei Marines a cui Mark Whalberg dà corpo, muscoli, ma soprattutto un'anima.
Shooter è un film del 2007, diretto da Antoine Fuqua, regista particolarmente abile nel dirigere action movie.
Lo ritroviamo nove anni dopo come produttore esecutivo di questa nuova serie in tre stagioni e 31 episodi, dal 2016 al 2018, omonima del film.
Shooter, per l'appunto.
E la prima stagione di questa serie che vede Ryan Phillippe nel ruolo che fu di Mark Whalberg non è altro che una rielaborazione della trama del film in episodi.
Un azzardo, se si considera che il film è diventato con il tempo un cult e che il film funzionava soprattutto grazie all'interpretazione di Whalberg, alla regia pirotecnica di Fuqua, all'alta qualità di condensare spy ed action in uno spazio di tempo esiguo, quello medio di un film, rispetto a una serie.
La storia, in breve, per entrambe le produzioni.
Bob Lee Swagger, marine pluridecorato, nonché cecchino infallibile, vive in esilio dopo una missione militare fallita. La sua ricerca di pace e serenità viene bruscamente interrotta quando si trova ad essere ingiustamente accusato di aver complottato contro il Presidente degli Stati Uniti d’America. Ferito gravemente e braccato (non nella serie, dove viene arrestato), Swagger dovrà fare di tutto per sopravvivere e, nel frattempo, capire chi ha cercato di incastrarlo.
Dunque, un uno contro tutti, contro un sistema, contro poteri forti, un canovaccio caro allo spionaggio e all'azione.
Lento vuol dire preciso, preciso vuol dire veloce.
Ma mentre il film fila come un orologio seguendo il dogma di cui sopra, la serie procede a tentoni, strappi, pause, momenti di stanca.
È interessante il tentativo di trasporre lo script di un film a un plot da serie tv, con tutte le diversità del caso annesse, ma l'operazione risulta sbiadita.
Qualcosa non funziona fin da subito nella serie Shooter. Ed è il protagonista.
Chi ha negli occhi l'energica, tribolata interpretazione di Mark Whalberg non può trovarsi di fronte all'inespressività di Ryan Phillippe, attore più assuefatto agli horror movie di cassetta che a film di intrighi politici e eminenze grigie che tramano nell'ombra.
D'accordo, citando il grandissimo Sergio Leone, “Quando si spara, si spara, non si parla”, citazione più che adatta per uno sniper, ma in una serie tv occorre essere convincenti anche senza un fucile di precisione in mano. Nelle serie, più che nei film, i protagonisti devono, come si suol dire, “bucare” lo schermo fin da subito, altrimenti fanno affiorare in fretta quelle che potrebbero essere le debolezze di uno script ambizioso e zoppicante.
Se il personaggio “cattura”, allora si possono anche perdonare alcuni nei, alcuni rattoppi nella scrittura della storia.
Ma se il personaggio è bidimensionale, allora sono dolori.
Shooter ne è un esempio. L'essere fuori posto dell'attore protagonista, si avverte fin da subito, fin dalle prime inquadrature, fin dalle prime battute. Non basta nemmeno la suggestiva ripresa del proiettile che esce dalla canna, con la traiettoria seguita in soggettiva fino al raggiungimento del bersaglio.
Questi effetti ormai si trovano da anni anche nei videogiochi, vedi la serie a tema Sniper Ghost Warrior. C'è abitudine, non più sorpresa.
L'espressione monolitica, che per carità, sorprendentemente è stata anche fortuna per alcuni attori, qui è più pesante del macigno più greve.
Phillippe non riesce a trasmettere niente di umano allo spettatore, ma risulta soltanto una presenza all'interno della serie. Nulla valgono i tentativi di fargli ruotare attorno un ottimo Omar Epps (il mai troppo rimpianto etico dottor Foreman in House), una convincente Shantel VanSanten nel ruolo di Julie Swagger, moglie di Bob Lee e alcuni altri caratteristi esperti di serie tv nei ruoli dei cattivi.
Probabilmente sembrano essersene accorti anche gli stessi sceneggiatori del cattivo funzionamento del prodotto, poiché nella seconda stagione, ci sono dei cambiamenti. La storia raccoglie schegge di combat direttamente dai territori afghani come flashback, alternandolo con i fatti presenti che costituiscono l'ossatura degli otto episodi della serie. Questa volta, si strizza un po' l'occhio all'American Sniper di Clint Eastwood ed anche a Il nemico alle porte di Jean-Jacques Annaud, mettendo in scena il classico da guerra fredda “cecchino russo vs cecchino americano” all'intero di una congiura a livello globale con invischiati anche i cartelli della droga messicani. Gli accorgimenti portati danno alla serie un'energia maggiore, i tempi sono meno dilatati rispetto alla prima stagione, a tratti anche felicemente compressi, con un ritmo alto e incisivo.
Un netto miglioramento rispetto alla prima temporada, ma con qualche passo falso che si nota e che abbassa l'entusiasmo.
Si arriva così all'ultima stagione e si ritorna purtroppo ai difetti della prima. A nulla valgono i buonissimi ultimi tre episodi, anche se abbastanza prevedibili, per risollevare una stagione piena di fili orditi e poi tagliati senza colpo ferire, con spiegazioni puerili dentro a una conversazione che fa emergere una crisi coniugale tra i Swagger.
Già, Shooter non si è fatta mancare nemmeno la classica crisi familiare dovuta al reduce che torna col corpo a casa, mentre la mente resta sempre in missione.
Un suggerimento, dal cuore. Se proprio volete fare una serie su uno sniper, sfruttate allora le storie di Russell Brendan Kane, cecchino creato dalla penna magistrale di Sergio Alan D. Altieri, che sceneggiatore è stato anche per tanti anni a Los Angeles. Certamente ci sarebbero storie strutturate alla perfezione, soltanto da trasporre senza essere rielaborate perdendone la forza vitale.
One shot, one kill, questa volta con Shooter è stato un colpo di esercitazione sparato a salve.
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