Ci sono a volte dei film, forse dei “piccoli film” quelli che si va a vedere la domenica quando non c’è veramente nient’altro, che ti lasciano dentro qualcosa che ti rimane a lungo e finisce per influenzare quello che scrivi e immagini più di quanto tu possa immaginare. A me è capitato con un trittico di filmetti d’azione e d’avventura che sul momento sottovalutai ma che, alla fine, si sono ripresentati nella mia immaginazione più frequentemente e con una maggior rilevanza di quanto mi fossi aspettato.
Era la metà degli anni ’80 in cui ancora erano vivide le emozioni de I 4 dell’oca selvaggia, che resta il capostipite di questo genere di film dedicati alle missioni svolte da mercenari in luoghi sperduti e pericolosi: storie di amicizia, di battaglia ma anche di tradimenti. Io non sapevo chi fosse Antonio Margheriti, né che si firmasse con lo pseudonimo di Anthony Dawson, e tantomeno ero al corrente delle evoluzioni del cinema popolare e delle sue strategie di marketing. Ero in un periodo di “formazione” e inghiottivo tutto quello che mi sembrava utile per creare il mio universo avventuroso.
Certo, erano anche gli anni in cui il Vietnam era rientrato alla grande nelle produzioni cinematografiche, da Apocalypse Now (1979) a Rambo (1982), in tutte le declinazioni possibili. Questi film che uscirono a poca distanza l’uno dall’altro e che vidi in un cinema di prima visione (perché ancora circolavano moltissimi film anche di quelli che oggi andrebbero direttamente in home video) e, devo ammettere, mi divertii un sacco. Trovai moltissime idee, anche se la confezione generale non mi pareva sontuosa e l’azione, per l’epoca, era molto convenzionale e non particolarmente coinvolgente. Arcobaleno selvaggio (Code name Wild Geese, 1985) è forse il primo e più famoso della trilogia.
Il film era diretto da Antonio Margheriti che qui si firmava Anthony Dawson, seguendo una pratica molto diffusa dall’epoca di americanizzare i nomi per dare l’idea che si trattasse di una produzione anglosassone e quindi accettata dal grande pubblico come “ufficialmente” avventurosa e lontana da ogni legame europeo. All’epoca non avrei mai immaginato che sarei ricorso anche io, con successo, al medesimo stratagemma quando si sarebbe trattato di lanciare il Professionista, che con questi film ha più di un debito d’ispirazione. Era una produzione italo-tedesca e ciò consentiva un buon budget che coinvolgeva alcuni visi cari agli appassionati del cinema di genere di quegli anni.
Prima di tutto c’era Lewis Collins nei panni del comandante Wesley. Per chi ha la mia età è difficile non collegare il viso di questo attore inglese, portato per l’azione ma anche per l’ironia e deceduto poco tempo fa, all’agente Body del CI5, nella serie "The Professionals" che, tra il 1977 e il 1984 raccontò in televisione storie di spionaggio e terrorismo, inusualmente violente e discusse. In quegli anni Collins era stato protagonista anche di Chi osa vince (Who Dares Wins, 1983 di Ian Sharp) e, in tempi in cui l’agente 007 cercava un nuovo viso, fu anche preso in considerazione per il ruolo. Nei panni del comandante mercenario duro fino all’eccesso, dominato dal rancore per la morte del figlio drogato, era perfetto.
Insieme a lui, assieme a Manfred Lehman che qui aveva un ruolo minore ma era imposto dalla produzione tedesca, c’erano visi familiari e amati dal pubblico. Prima di tutto Klaus Kinski, con il viso da pazzo e la capigliatura biondo platino. Poi Lee Van Cleef che era un’icona anche in età avanzata e dopo i western all’italiana era tornato poco tempo prima in 1997 Fuga da New York, era di per se stesso una garanzia. Infine il faccione di Ernest Borgnine garantiva emozioni avventurose. Mimsy Farmer era l’unico personaggio femminile di rilievo ma non era una storia che prevedesse consistenti presenze femminili.
Siamo a metà tra il film di McLaglen, i precedenti Quella sporca dozzina e I Cannoni di Navarone. Roba da maschi. La formula era quella dei “bastardi” costretti a collaborare per una missione impossibile. Le ambientazioni andavano da una fascinosa Hong Kong, fotografata negli immancabili angoli caratteristici che già lo spionistico avventuroso degli anni ’70 aveva celebrato, alla giungla cambogiana che un po’ strizzava l’occhio anche a Fratelli nella notte (1983) di Ted Kotcheff.
La trama prevedeva traditori più o meno sospettabili, colpi di scena, battaglie, azioni di commando e una risoluzione finale con la punizione dei cattivi e la distruzione dei campi di papavero. Nulla di veramente originale ma una solida trama svolta con mestiere. Filmato con una certa rigidità ma non con banalità, anche oggi a tanti anni di distanza resta un buon film d’azione di quelli che il cinema italiano ed europeo fatica a produrre, e se ne sente la mancanza. Ci sono tra le location e le trovate narrative molte idee che ancora oggi sono interessanti.
L’assalto al treno è sicuramente la sequenza meglio riuscita, ma c’è un vigore narrativo che sostiene la storia anche quando i mezzi mancano, come nel finale. Soprattutto non ha il ritmo rallentato che avevano molti film di serie B americani dell’epoca mi parevano avere. Certo, siamo lontanissimi dai contemporanei Heroic Bloodshed di Hong Kong ma siamo in presenza di un prodotto professionale, compatto e avvincente che, prima di ogni altra cosa, offre allo spettatore quello che cerca. Non credo che nessuno sia andato a vederlo convinto di assistere a un colossal hollywoodiano, ma sono convinto anche che, come me, moltissimi spettatori siano usciti più che soddisfatti dalla sala.
Dimenticavo. In Italia e nelle successive versioni home video uscì con un bel manifesto disegnato da Enzo Sciotti che, in quegli anni, fece moltissimo per la riuscita commerciale di questo come molti altri film di ogni genere, dall’avventura all’horror. Quasi lo spettatore si immaginava un film grandioso, spesso superiore alla resa sullo schermo della singola pellicola, proprio grazie alle visualizzazioni di Sciotti. Almeno per me fu così. In quei poster iperrealistici vedevo concretizzarsi un mondo di fantasie che, negli anni, mi sarebbe tornato alla mente più di una volta.
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