Ideale completamento alla visione di 1987: When the Day Comes di Jang Joon-hwan, Courtesy to the Nation è il lungometraggio d’esordio di Gwon Gyung-won incentrato, come il film vincitore del FEFF 20, sulle rivolte studentesche nella Corea del Sud.

Gwon però sceglie una strada diversa rispetto a Jang, focalizzandosi sul post 1987 e su come il cambio di governo con Roh Tae-woo come presidente apparentemente democratico non avesse invece portato ad alcuna libertà effettiva, portando molti studenti ad immolarsi per la causa della democrazia, altri ad essere torturati e accusati di istigazione alla violenza e al suicidio dei loro compagni.

Per raccontare tale fase storica, Gwon decide di realizzare un documentario denso di interviste agli studenti allora vittime delle rappresaglie e sopravvissuti agli eventi, ricostruendo un arco storico molto dettagliato che arriva a coprire anche gli anni ’90 e i nostri giorni.

Lo scopo del film è insieme quello di indagare non solo le responsabilità del regime ma anche in che modo i mass media contribuirono a dividere l’opinione pubblica e a distorcere gli eventi, oltreché quello di mostrare i modi in cui la lotta per la sopravvivenza e per rettificare il ricordo di quanto avvenuto sia stata portata avanti dagli ex studenti coinvolti nelle proteste. Alternando immagini di repertorio in bianco e nero a ricostruzioni con figurine di pongo, con lunghi intermezzi di interviste a colori sui protagonisti nella loro vita di oggi, Gwon racconta una vicenda corale scegliendo al contempo di concentrarsi su una vicenda particolare, quella di Cahng Kihoon, arrestato nel 1991 perché scelto come capro espiatorio per la morte di uno suo compagno di studi.

Partendo dalla vita di oggi di Cahng, finalmente uscito di galera nel 2015, Gwon cerca di rievocare una stagione molto complicata della storia sudcoreana, fatta di continue menzogne date in pasto all’opinione pubblica, che si trovò divisa fra l’appoggiare gli attivisti, sia studenti e sindacalisti, o condannarli, perché i numerosi suicidi vennero visti come atti che avrebbero minato la forza del movimento di protesta non proponendo alcuna alternativa allo status quo. Il governo stesso contribuì a polarizzare le opinioni al fine di giustificare pubblicamente le proprie azioni autoritarie per monitorare le associazioni studentesche e sindacali, definite non solo come sovversive perché ovviamente (!) legate allo spionaggio nordcoreano ma addirittura come unità suicide volte a destabilizzare la società. Molti giornali dell’epoca fecero da cassa di risonanza del governo ospitando articoli che condannavano gli studenti e i loro gesti “inutili”: celebre fu ad esempio il caso del poeta Kim Ji-ha, che si lanciò in una feroce critica chiedendo ai militanti di smettere di sacrificarsi scatenando così ulteriore violenza. Il film dà una risposta molto complessa all’incidenza di suicidi – 13 nell’arco del solo mese di maggio del 1988 – attraverso le parole dei compagni ancora in vita: da un lato, i sopravvissuti rivendicano l’idea che il suicidio fosse l’unica arma rimasta per attirare l’attenzione in una situazione di impotenza dove studenti e sindacalisti che chiedevano più diritti erano ormai etichettati come “teppisti” sia dal governo che dall’opinione pubblica; dall’altra, molti degli intervistati, compreso Cahng Kihoon, suggeriscono chiaramente come le prove prodotte dalla polizia riguardanti i casi di suicidio, ossia i biglietti di addio scritti dai manifestanti prima di togliersi la vita, fossero state ottenute in maniera non chiara, spesso presentando cancellature o manomissioni, nel cosciente tentativo di distorcere la realtà e strumentalizzare i suicidi per mettere i manifestanti gli uni contro gli altri.

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Cahng stesso venne accusato di essere stato lui a scrivere il biglietto d’addio di uno studente suicida e di averlo di fatto istigato a togliersi la vita. Il tentativo di manipolazione degli eventi da parte della polizia, del governo e dei mass media portò il movimento ad una nuova protesta in difesa di Cahng, con l’occupazione della cattedrale di Myeong-dong a Seul, ma alla fine fu la procura a vincere, e il ragazzo dovette consegnarsi per forza nelle mani della polizia pur non avendo commesso alcun crimine. Il film poi racconta come Cahng e i suoi legali siano riusciti faticosamente a far riaprire il caso e di come nel 2015 l’ex studente abbia ottenuto l’assoluzione, ma alla sua vicenda finalmente risolta in positivo fanno da controcanto il dolore incancellabile dei tanti sopravvissuti, che sentono il peso e la responsabilità di “vivere l’esistenza che gli altri hanno abbandonato”, e gli ulteriori, disperati suicidi che si verificarono nel corso dei lunghi anni a venire – compreso il 2015 – come forma di resistenza ad un governo e a un’opinione pubblica sordi alla legittima richiesta di giustizia e sempre intenti ad occultare prove e declinare ogni responsabilità per gli accaduti.

La sentenza di assoluzione di Cahng infatti non riconobbe alcuna responsabilità ufficiale dei membri del governo, così come la recente tragedia del traghetto Sewol del 2014, in cui sono hanno perso la vita 300 studenti, non ha ancora avuto una chiara sentenza di condanna del capitano della nave e del suo equipaggio. Nella sua intensa ricostruzione di indubbio interesse storico e documentario, Gwon forse pecca di poca originalità, con scelte a volte ingenue come quella di intervallare gli eventi narrati e le interviste con assoli di chitarra di Cahng, forse per dimostrare come l’ex studente abbia ormai ritrovato la pace interiore nonostante le ingiustizie subite.

Ma sono scelte perdonabili per un film che certamente contribuisce a restituire dignità e verità storica ad eventi spesso occultati e che, sicuramente in Occidente, sono ancora poco noti e che invece meritano di essere divulgati il più possibile nel nome della verità e della lotta.