Gianluca Ales, nato a Roma nel 1967, lavora per Sky dalla sua fondazione (nel 2003). In precedenza ha lavorato per Stream, Milano Finanza, ADN Kronos, Manifesto e ANSA.
Negli anni scorsi è stato un inviato speciale in scenari di crisi e terrorismo islamicoraccontando i principali conflitti degli ultimi quindici anni tra Libano, Israele, Gaza e Territori, Afghanistan e tutto il Medio Oriente (tranne la Siria).
Oggi è conduttore, rassegnista e analista di Islam e Medio Oriente.
Ha seguito sempre anche le problematiche relative all’ordine pubblico, l’estremismo di destra romano e i movimenti nell’area anarco-insurrezionalista.
Ho pubblicato un racconto lungo per Gialli Mondadori, “Geli” (2002), e due romanzi per i tipi Imprimatur, “Una notte sbagliata” (2014) e “Quinto Round” (2017). I due romanzi condividono la stessa ambientazione, la mala romana, e alcuni protagonisti, tra cui il commissario Avitabile.
Quali le differenze nella descrizione di un crimine e della relativa un’indagine nella redazione di un articolo e nella stesura di un romanzo?
Le differenze che ci sono tra realtà e finzione, direi. Anche se in effetti, andando più a fondo, la faccenda si fa più complicata. Partendo dal luogo comune che la realtà supera l’immaginazione, diciamo che mentre la cronaca sottostà a precise regole deontologiche e di linguaggio, la narrativa è libera. Personalmente, per rispetto dal lettore, io pretendo che la narrativa gialla (io preferisco il termine crime) sia verosimile. Per cui se per la cronaca ci si deve attenere alla verifica delle fonti e delle notizie, nella narrativa, anche se ci si muove nell’ambito della finzione, bisogna essere assolutamente rigorosi nel descrivere una realtà alternativa plausibile. Io verifico ogni singola affermazione che scrivo nei miei libri. È la prassi giornalistica che contamina la prosa, forse, ma non saprei fare diversamente. Forse è un mio limite, ma non scrivo fantasy, e cerco di offrire al lettore un’esperienza che possa offrire chiavi di lettura del reale, non una fuga dalla realtà.
Nello specifico, quanto si differenzia il linguaggio giornalistico da quello letterario?
Il giornalismo deve rispondere a regole rigide: sintesi, comprensibilità, chiarezza. Nessun aggettivo – se non necessario, nessun inciso, nessuna digressione o subordinata. È la sfida quotidiana di essere semplici ma non elementari. Non è così facile come potrebbe sembrare. La narrativa invece è una prateria sconfinata in cui puoi decidere che tipo di “passo” usare e ognuno decide il suo. Io ho scelto di esplorare le varie possibilità espressive intercalando la narrazione delle vicende con il racconto dei vari mezzi di informazione. Mi sono “divertito” a scrivere come per l’agenzia, la radio, la tv e i social. Ellroy, per esempio, usa i titoli “strillati” della stampa Usa anni ’50 e ’60 allo stesso scopo. Ma ci sono decine di esempi di questo genere. Se devo dire, raramente gli scrittori riescono a riprodurre articoli giornalistici in modo credibile. Spesso nei romanzi leggo roba che nessun editore ammetterebbe sulle sue pagine.
Nella cronaca giornalistica, come si coniuga il diritto-dovere di informare con la segretezza delle indagini?
È un gioco delle parti in cui ci si sfrutta entrambi. Gli inquirenti fanno le “soffiate” che possono tornare utili alle indagini, o alla propria carriera personale. Noi giornalisti usiamo le informazioni che ci vengono date con la consapevolezza che se violiamo gli standard minimi di correttezza ne pagheremo le conseguenze, ma ben consapevoli che è una merce di scambio. Poi la tarantella della stampa invadente e degli inquirenti che vogliono sopprimere il diritto all’informazione, se si parla di cronaca, rientra appunto in questo balletto. Ricordiamoci che “Gola Profonda” del Watergate era Mark Felt, all’epoca vicedirettore dell’FBI. Non esistono indagini danneggiate dalla stampa, ma da qualche inquirente troppo chiacchierone. Chiunque mi parli sa che sono un giornalista e che quanto sta dicendo lo userò. A meno che non mi sia stato dato il perimetro in cui usare le informazioni: le formule “fonti anonime” o “riservate”, o altre circonlocuzioni simili, sono concordate con chi ci sta parlando. L’ingenuità è un lusso che chi fa questo mestiere, di inquirente o di cronista, non si può permettere.
Nel racconto della criminalità, del suo modus operandi, nelle connessioni internazionali, è più libero il giornalista o lo scrittore?
Scrivere è in sé un atto sovversivo che è poco tollerato dai regimi, sia che si tratti di prosa che di cronaca giornalistica. E in genere direi che non è un buon momento per la libertà di espressione in tutto il mondo. Trump che chiede di chiudere la CNN, Erdogan che imprigiona centinaia di giornalisti, l’Italia che stagna al 55° posto – dopo essere risalita dal 77° – nella classifica della libertà di stampa mondiale. Potrei annoiarti ricordando che non c’è solo Roberto Saviano costretto a vivere sotto scorta, ma anche Salman Rushdie che ha subito una fatwa da Khomeini, e i vignettisti “satanici” di Charlie Hebdo massacrati dagli jihadisti. Volendo estremizzare si può dire che la criminalità organizzata è funzionale agli stati – non è sua nemica, e che pertanto non tollera chi mette in luce le pericolose relazioni con alcuni apparati che per comodità definiamo “deviati”. Chiunque parli di questo lo fa a suo rischio e pericolo. Ovunque. E in qualsiasi modo, che sia narrativa o reportage giornalistico.
Alcune figure inquirenti “di carta” sono rimaste nell’immaginario dei lettori e del pubblico televisivo, basti pensare al tenente Colombo, al commissario Montalbano, a Maigret, al commissario Rocco Schiavone, a Sarti Antonio e a tanti altri. Secondo la tua esperienza letteraria, che caratteristiche deve avere la figura dell’investigatore per far breccia nel lettore?
Posso rispondere solo per quanto riguarda il mio commissario, Avitabile. È brutto, sporco e ha un cattivo carattere. Beve e fuma troppo, è divorziato, ha un pessimo rapporto con la figlia e con i suoi colleghi. È ossessivo e scortese e, detto fra noi, ha qualche difficoltà con i principi più elementari della democrazia. Perché ho scelto questo personaggio così difficile? Perché sono stufo dei burberi gourmand dal cuore d’oro, degli straordinari segugi dalla soprannaturale capacità di capire da pochi irrilevanti elementi la verità, dai duri che piegano le regole ai loro tetragoni e personali principi di giustizia… Il mio commissario di deve misurare con un dilemma non semplice: fino a che punto si possono violare le regole per farle rispettare? Qual è il limite del compromesso accettabile? Non è il classico perdente di successo, è un vincitore sconfitto. Credo rifletta maggiormente la realtà che, come al solito, è poco seducente.
Esiste una tipologia letteraria di figura inquirente che più si attaglia a descrivere la criminalità contemporanea?
Tempo fa discutevo proprio di questo con Massimo Lugli, che mi confessava il suo fastidio verso la figura abusata del commissario. Tutto vero, mi chiedevo, ma in Italia chi fa le indagini? Gli investigatori privati di fatto non esistono, i carabinieri sono militari, e questo limita molto le possibilità narrative, almeno dal mio punto di vista. Certo, ci sono gli avvocati, basti pensare al Guerrieri di Carofiglio, che però è un’autorevole eccezione che non può essere replicata. Quindi di qui, secondo me, non ci si muove. Il commissario conduce materialmente le indagini, è in borghese, può entrare in azione. Tutto qui: io, almeno, non so offrire alternative.
Più in generale, quando la letteratura gialla racconta la criminalità contemporanea, che ruolo assume?
La letteratura gialla non parla solo di crimine. Ogni romanzo, anche il più modesto, nasce per affrontare il dilemma morale per eccellenza: come sconfiggere il male, e come identificarlo quando i confini sono così incerti. La letteratura non ha un ruolo, perché chi ha un ruolo ha delle tesi, e la saggistica è il luogo giusto in cui collocarle. La letteratura invece pone domande. Se possibile senza risposta.
La classica domanda d’obbligo: l’ultimo romanzo pubblicato è “Quinto round”. Ce ne sarà un sesto?
Le mie ossa ora sono a Milano, la mia anima però resta a Roma che è la vera protagonista dei miei romanzi. Non posso scrivere di una realtà che non vivo più. Certo, le sue pietre, le sue vie, i suoi umori resteranno sempre con me, ma una realtà mutevole e complessa come una città millenaria non può essere raccontata “da fuori”. Scriverò di nuovo, certamente, e anche Avitabile prima o poi tornerà tra le mie pagine, ma non so né come, né quando. Sto lavorando su almeno tre progetti diversi, vediamo quale prevarrà.
Aggiungi un commento
Fai login per commentare
Login DelosID