«Scrivere è un'esplorazione ogni volta. La soluzione di una storia, per me, è ogni volta una specie di miracolo. Una spiegazione di chi sono». Così John le Carré in un'intervista a La Repubblica del 22 ottobre 2010; e più avanti: «Niente di quello che scrivo è vero. È fatto della stoffa dei sogni, non è la realtà.»
A parte l'eco, tutta inglese, del Prospero della Tempesta shakespeariana, e detto del nostro consenso col fatto che quanto si scrive nella narrativa “gialla” non debba essere necessariamente vero ma verosimile, vorrei però accostare a le Carré una frase importante di Will Eisner, che ebbe una volta a dire: «Io scrivo di ciò che conosco e di cui ho avuto esperienza, perché è questo che mi mantiene onesto». Ecco, non è un caso che le Carré, da ex agente dei servizi segreti britannici, sia diventato un grande scrittore di storie di spionaggio; anzi, potremmo dire che questo non poteva non essere il suo destino. E in questa sua opzione narrativa, si sa, è apparso centrale, fin da subito, il personaggio di George Smiley.
S'è detto da più parti che la primaria peculiarità di Smiley, nato nel 1961, sia stata l'aver ribaltato la figura dell'agente segreto 007 proposta dal '53 da Ian Fleming e portata al successo mondiale, in quegli stessi anni, soprattutto dal cinema: e questo è indubbio se pensiamo al Bond raffinato gentleman, conservatore, nazionalista, moderatamente razzista, conscio di una sua superiorità di classe, viaggiatore in paesi esotici, maschilista, atletico e sessualmente irresistibile. Anche se, per completezza, non va taciuto che, insieme a Fleming, vengono ribaltati d'un tratto anche certi suoi predecessori, come il connazionale Desmond Cory, padre dell'agente segreto Johnny Fedora, e soprattutto il francese Jean Bruce, creatore di OSS117, altro superuomo coraggioso, ironico, galante e provvisto di stile.
Smiley, al contrario, si colloca – in lievissimo anticipo sulla Spia Senza Nome di Deighton (La pratica Ipcress, 1962) – sulla linea tracciata fin dal 1928 da Somerset Maugham con Ashenden. L'agente inglese, il primo antieroe in un mondo di spie ritratto con realismo, seguito a breve distanza temporale da Eric Ambler e Graham Greene, con cui si era realizzato un cambiamento radicale delle modalità di costruzione della vicenda spionistica e di invenzione dei suoi protagonisti. Soprattutto con Greene s'era via via accentuato l'aspetto dell'ordinarietà degli agenti segreti e della loro vita professionale, nient'affatto avventurosa bensì ritratta in modo disincantato e prosaico, con persone ordinarie che le circostanze a volte costringevano a comportarsi in modo straordinario, in una commistione di ironico e tragico che era chiave di volta o cifra costitutiva. Si pensi all'esemplare Il nostro agente all'Avana del 1958, di soli tre anni anteriore alla nascita di Smiley.
A proposito del quale, vorrei segnalare una cosa piuttosto nuova, che è la tesi di fondo del nostro intervento: cioè che Smiley non nasce, narrativamente, sotto il segno della spy story, bensì del mystery.
Il che non dovrebbe poi stupire più di tanto, se è vero che la spy letteraria sfrutta sì l'attualità, ma fin dalle origini s'è accostata al noir e ha incrociato molti altri generi narrativi, compreso il mystery classico all'inglese (come sia Holmes che Poirot, coinvolti spesso in vicende spionistiche, stanno eloquentemente a dimostrare). E in anni più recenti si pensi che il protagonista delle storie di Jean Bruce, Hubert Bonisseur alias OSS117, inizialmente era un detective – né più né meno, si vedrà, del nostro Smiley – o che il Gérard de Villiers padre di Malko Linge alias SAS aveva debuttato scrivendo due noir. E nello stesso Circus in cui opererà Smiley – specchio impietoso della società medio-alta britannica del dopoguerra – gelosie, tradimenti personali e professionali, vendette e soprattutto la consapevolezza di essere sacrificabili «sono passioni e sensazioni che si legano al noir più che al romanzo di propaganda politica» (1)
Dunque, Chiamata per il morto, del 1961, di là dall'ambientazione, costituisce un esordio da mystery classico: un funzionario inglese del F.O., ex comunista, nel mirino del controspionaggio per via di una lettera anonima ma senza colpe evidenti, si toglie la vita poche ore dopo aver parlato con Smiley, che sa di averlo rassicurato. La vedova, però, testimonia che era ansioso e depresso. Smiley a questo punto non crede al suicidio, dà le dimissioni e comincia a indagare non come agente segreto, ma a titolo personale, partendo da una strana richiesta di sveglia telefonica e da una tazza di cacao non bevuta…
Si delinea così, a ben vedere, non tanto un plot di spionaggio quanto una storia drammaticamente umana, alla Simenon o alla maniera di quel Maugham che tanto piaceva a le Carré, come emerge, per esempio, dalle parole tragiche e terribili della vedova: «Voi vi autodefinite lo Stato, ma non avete un posto in mezzo alla gente reale. Lasciate cadere una bomba dall'alto, ma poi fate a meno di venire quaggiù a guardare il sangue o a sentire le urla.» (2)
Anche Un delitto di classe, dell'anno dopo, ribadisce e corrobora una trama ancor più da mystery (non da thriller, unico errore di un bravissimo critico (3)), quasi da Agatha Christie: la direttrice di mezza età di un piccolo periodico riceve, tra le lettere del pubblico, quella di una signora che conosce, che scrive d'esser sicura che suo marito – docente presso il college di Carne – la voglia uccidere. Lei allora, preoccupata, si rivolge a Smiley, che – s'è visto – ha lasciato il Service. Lui accetta di occuparsi in privato del caso, ma alla prima telefonata che fa, alla presenza della direttrice stessa, si sente dire che la donna è appena stata assassinata…
Si confermano qui le canoniche modalità del giallo classico: la sovrabbondanza del sangue, le tracce sulla neve, la mancata effrazione alla porta, la ricerca delle impronte digitali (ma l'assassino portava i guanti) nonché dell'ora e dell'arma del delitto, il controllo degli alibi dei professori del college, delle loro mogli e delle sorelle. E del giallo tradizionale si riprendono anche altri stilemi narrativi, già in Chiamata per il morto, quali la presenza della “spalla” (un ispettore di polizia), o il “punto” dell'indagine redatto su un foglietto privato a tre quarti della storia, o il taglio stesso della suspense, con costante sospensione emotiva in chiusa di capitolo. Senza contare che Stella Rode, la vittima, nella sua crudeltà gratuita ricostruita a posteriori ricorda un po' la signorina Honoria di Murder is easy di Agatha Christie.
Ma l'aspetto più intrigante del giallo, e il più autobiografico, è dato dal ritratto che le Carré offre della società britannica attraverso l'anatomia della sua primaria istituzione formativa, la public school, cioè la scuola privata, che da secoli forgia la classe dirigente inglese. I delitti avvengono infatti nel college di Carne, la “cittadella” esclusiva; farne parte conferisce un tocco d'indefinibile distinzione, significa prestigio sociale; insegnanti, allievi, ex allievi formano quasi una casta; c'è un clima old England in pieno secolo XX. Ma dietro questa immagine di sofisticata rispettabilità, di inalterabile equilibrio, di provinciale e civilissima convivenza, esistono abissi: amicizie particolari fra professori e studenti, invidie e rancori antichi fra colleghi, odiosi e rigidissimi rapporti gerarchici. Carne condanna alla solitudine chi vi entra. E il mondo di Carne è un mondo superato, sotto assedio, in agonia, rappresentato senza pietà e senza più misteri (e forse anche per questo è stato congedato, nella carriera di le Carré, insieme con la forma stessa del mystery).
Ma la vera, grande invenzione del primo le Carré – negli stessi Spying Sixties di Deighton – è Smiley, il suo protagonista, «entrato nell'età adulta senza mai essere stato giovane», ritratto con sostanziale omogeneità da un romanzo all'altro sul piano fisico, biografico e caratteriale. È «un rospo»: piccolo, tarchiato, paffuto, dai capelli radi, miope, con occhiali dalle lenti spesse e abiti raffinati portati male; detesta i giornali e la televisione; ama la letteratura tedesca del '600 (come le Carré ammette di sé nella sua recentissima autobiografia (4)); è bersaglio di maligne allusioni al proprio divorzio. Però è anche preciso, paziente, prudente, funzionalmente anonimo, deduttivo, furbo e pudico insieme, soprattutto onesto («non aveva mai preteso di giustificare i mezzi con il fine» (5)).
Nel passaggio, però, da Chiamata a Un delitto la personalità di Smiley non può non mostrare, inevitabilmente, anche qualche differenza, proprio alla luce del suo diverso incarico e del diverso ambiente socio-culturale in cui si muove: per esempio, l'atteggiamento è più attendista, più passivo; sa far domande, ma ancor più sa ascoltare, e soprattutto si approfondisce, nel secondo romanzo, la natura del suo intuito psicologico, in una pagina fondamentale che coniuga insieme i requisiti del mystery e quelli della spy:
«Per natura, era portato a prediligere il più assoluto anonimato. Il mondo dello spionaggio non è popolato dei pittoreschi avventurieri dei romanzi. Un uomo come Smiley, che era vissuto per anni tra i nemici del suo Paese, impara una sola preghiera: dio mio, fa che nessuno si accorga di me (…) Ma tutto questo aveva sviluppato in Smiley un finissimo intuito psicologico, una acuta, femminea sensibilità. Conosceva gli uomini come il cacciatore conosce la sua posta, come la volpe conosce il suo bosco. Una spia deve cacciare e contemporaneamente è cacciata (…) Egli sapeva registrare indelebilmente gesti e parole, scoprire l'intercorrenza tra sguardo e atteggiamento, proprio come il cacciatore sa interpretare un segno in un cespuglio, o come la volpe scopre i segni del pericolo (6).»
Smiley passa insomma da detective parzialmente integrato nel primo giallo (aiutato dal duo Mendel-Guillam) a indagatore solitario nel secondo, e, più ancora di Chiamata, è Un delitto di classe a proporci alcuni interrogativi: c'è stato, all'esordio, un le Carré in qualche modo indeciso sulle proprie corde e sulla propria strada? Sulle due “anime” del giallo tra cui optare? La prima (la detection in proprio di una ex spia) più personale, autobiografica, tecnicamente più accessibile e diretta, e la seconda (il mystery) più commerciale e di successo, nella patria stessa di Agatha Christie? O forse, più semplicemente, può aver ragione Oreste del Buono? «Un delitto di classe non si svolgeva nel mondo dello spionaggio, ma in quello di un college in campagna: un esempio di quella che sarebbe stata la vita di Smiley se avesse abbandonato definitivamente il servizio. Sarebbe stata solo un'attesa, un'incapacità di stare in riposo. Tanto valeva tornare al Circus o almeno negli immediati dintorni.» (7)
Ma a ben vedere, nei due romanzi che seguiranno, La spia che venne dal freddo del 1963 e Lo specchio delle spie del '65, Smiley è un comprimario, non il protagonista, come se l'Autore sentisse ancora il bisogno di focalizzarlo meglio, di assegnargli la funzione precisa. E se comunque bivio è stato, e la scelta narrativa di campo è stata definita molto presto, non sfugge la presenza di connessioni – significative e dichiarate – tra spy e mystery nella stessa metodologia investigativa: «Uno dei fondamentali principi che Smiley aveva sempre applicato alle sue ricerche, si trattasse degli incunaboli di un oscuro poeta o delle informazioni top secret del tempo di guerra, era: non procedere mai oltre ciò che è stato chiaramente provato. Una volta che si sia arrivati a definire logicamente un fatto, non bisogna dilatarne il significato oltre i suoi limiti naturali.» (8)
O nel relativismo di ogni metodologia: «Smiley rifletté per l'ennesima volta sull'irrazionalità delle cause nel comportamento umano. Non c'era una sola cosa sicura in questo mondo: non c'è regola costante, nessun punto fisso, neppure nella più pura logica né nel più tenebroso misticismo; meno che mai nella psicologia degli uomini quando agiscono nella violenza (…) Non c'è una verità valida per tutti gli uomini, non esiste una regola alla quale confrontare ciascuno di noi (…) Noi siamo dei camaleonti.» (9)
Torna in mente, qui, il Grande Mystery, con quel Maigret il cui metodo d'indagine consisteva proprio nel non averne uno, così come, in altro passo, l'empatia investigativa teorizzata da Smiley nei confronti del mondo di Carne rimanda agli stessi principi verso i colpevoli del Chesterton di padre Brown: «Bisognava esser malati, marci dentro per capire, bisognava giacere nel lazzaretto non per settimane ma per anni, essere un paziente anonimo nella fila dei lettini bianchi, per conoscere il puzzo del loro cibo e la cupidigia dei loro sguardi. Bisognava udirlo e vederlo, esserne parte, per conoscere le loro regole e individuare le trasgressioni.» (10)
E arrivato a questo punto, mi piace chiudere con un pensiero del primo Smiley, solo, a Dresda, per la prima volta conscio della storica follia del nazismo: «C'era stata una notte, una terribile notte dell'inverno 1937, in cui Smiley era rimasto alla finestra della sua stanza e aveva assistito a un grande falò nel cortile dell'università: intorno, centinaia di studenti con le facce esultanti e illuminate dalla luce guizzante. Nel rogo pagano venivano lanciati dei libri, a centinaia. Lui conosceva gli autori di quei libri: Thomas Mann, Lessing, Heine e tanti tanti altri. Smiley stringeva nella mano madida la cicca della sigaretta, vigile, pieno di odio, esultante perché aveva riconosciuto il nemico.» (11)
Il nemico: non la Germania, ma l'ostilità per la Cultura. E in un'epoca come la nostra, in cui si grida da più parti di far crescere l'economia, e quasi mai di far crescere la cultura, queste ultime parole mi sembra possano avere una loro indiretta, malinconica attualità.
Note
1) S. Di Marino, Spy Story, in AA.VV., Dizionoir, a c. di M. Smocovich, Milano, Delos Books, 2006, p. 220
2) John le Carré, Chiamata per il morto, Milano, Oscar Mondadori, 1995, p. 29
3) P. Bertinetti, Agenti segreti. I maestri della spy story inglese, Roma, Edizioni dell'Asino, 2015, p. 171
4) John le Carré, Tiro al piccione. Storie della mia vita, Milano, Mondadori, 2016
5) John le Carré, Un delitto di classe, Milano, BUR Rizzoli, 1987, p. 78. E poco oltre: «Una volta, durante la guerra, un suo superiore aveva detto di lui che era astuto come il demonio e pudibondo come una vergine: un giudizio che trovava Smiley del tutto consenziente» (p. 79)
6) John le Carré, Un delitto cit., p. 83
7) O. Del Buono, Smiley, il diavolo e l'abbazia, in L. Calcerano-G. Fiori (a c. di), Una storia di spie, Firenze, La Nuova Italia, 1997, p. 282
8) John le Carré, Un delitto cit., p. 98
9) Ibidem, p. 117 e 152
10) Ibidem, p. 99
11) John le Carré, Chiamata cit., p. 11.
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