Con l’inquisitore Girolamo Svampa nella Roma barocca del ‘600.
Roma, dicembre 1624.
Il primo morto non naturale è fra’ Pietro Rebiba, domenicano e consultore dell’Indice, schiacciato dentro un torchio tipografico, in rione Pigna presso la bottega dello stampatore Zanetti. A cercare di risolvere il mistero l’inquisitore, anch’egli domenicano, Girolamo Svampa, nominato commissarius dalla più alta sede capitolina con poteri assoluti. Suo metodo investigativo quello del “furetto”, ovvero non giudicare in base al sospetto ma, come questa bestiola, “addentrarsi nel rifugio della preda, al fine di portare alla luce nomi, indizi e moventi.” Reca sul collo il marchio di un roveto ardente, simbolo e ricordo di un drammatico passato che lo fa soffrire, costringendolo anche all’uso del laudano.
Fra’ Rebiba era membro della Congregazione dell’Indice, sotto il diretto controllo di padre Francesco Capiferro (gran fumatore di pipa), incaricato di valutare il contenuto dei libri sottoposti al suo esame, “al fine di prevenire la divulgazione di testi eretici, blasfemi o immorali.” Ora nella bocca del morto, e sparsi a terra, alcuni fogli di un libello libertino, zeppo di citazioni anticlericali e con incisione di una danza macabra, ovvero della Morte che “irrompeva in una bottega di stampatori per insidiare librai e tipografi.” E qualcuno, in seguito, dichiarerà di avere visto nelle vicinanze un uomo tutto vestito di nero con una maschera dal naso smisurato che ha detto di essere Capitan Spaventa.
Da qui inizia il lungo viaggio dell’Inquisitore alla ricerca della verità con l’aiuto del suddetto Capiferro e del fedele bravo Cagnolo Alfieri che ha una figlia monaca di clausura (possibile oggetto di ricatto). Altro morto ammazzato un membro della Santa Inquisizione, il precedente sotto il torchio, questi sul banco delle matrici. L’indagine si complica anche perché il nostro deve scontrarsi con gli altri poteri dell’Urbe, in primis con il governatore di Roma. La sfida è capire cosa ci sia dietro a questi delitti che non sembrano eseguiti solo per scopi individuali. Forse c’entra di mezzo la politica, magari gli spagnoli del Sud o le potenze del nord. O, forse, la religione…
Marcello Simoni ne sa una più del diavolo per tenere desta l’attenzione del lettore. Capitoletti brevi e fitti con ripetuti colpi di scena e cambiamenti di prospettiva; il segreto che logora l’Inquisitore portato avanti fino al suo completo disvelamento; una splendida ricostruzione storica della città attraversata da mille poteri, sette segrete, i Rosacroce, il “Mercurio”, libri e libelli sovversivi e libertini, le teorie di Lucrezio e Campanella, streghe, satanismi, Iside, l’alchimia e chi più ne ha più ne metta. Un mondo maestoso nell’opulenza e nella miseria, popolato di tagliaborse, accattoni e ogni genere di canaglia, intrigante e fascinoso. Aggiungo il passato che ritorna funesto (ormai di moda in tutti i libri), la neve candida a dare un breve senso di pace, niente amori o amorini, niente sesso spiaccicato di brutto sulla pagina (pura novità). Alla fine l’Inquisitore forte, risoluto e nello stesso tempo gonfio di ricordi dolorosi, snocciola tutto quanto l’ambaradan, intricato, intricatissimo, nel più classico dei classici, con la stessa precisione e nonchalance di un redivivo Poirot.
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