In una recensione di questo romanzo per l’inserto libri di Repubblica, Corrado Augias citava il caso dell’egiziano rapito a Milano da una squadra della CIA, e consegnato (pare) ai servizi di sicurezza del suo paese, per essere interrogato e torturato senza scrupoli e senza pietà, come esempio del modo in cui la vita imita la letteratura (che a sua volta per contro imita, non sempre bene, la vita…). In effetti, a chi segue almeno un po’ l’informazione su ciò che accade nella guerra infinita e senza frontiere contro il terrorismo islamico, questa lunga, densa, avvolgente spy-story offre una lettura più che soddisfacente, per di più condita da accenti di verità davvero inquietanti. La trama è complessa, e segue le mosse via via convergenti di una agente dell’MI6 britannico, Isis Herrick, che a partire da alcune strane operazioni di scambio di identità tra viaggiatori in transito a Heathrow viene coinvolta in una grossa indagine globale su una rete terroristica "coperta" in Europa, probabilmente responsabile dell’attentato all’ammiraglio Norquist, inviato del presidente degli Stati Uniti; di uno strano, indecifrabile osteopata di nome Sammi Loz, sospettato di attività antiamericane dall’FBI, uno che ha in cura ad esempio la schiena del segretario generale dell’ONU e del suo responsabile della sicurezza, Harland (già protagonista del precedente romanzo di Henry Porter, Una vita da spia) e ha uno studio nell’Empire State Building (che voglia farlo saltare?); di Karim Khan, un ex-mujaeddin che lentamente, tra mille fatiche e mille pericoli, sta attraversando l’Europa balcanica… per andare dove? Va in cerca di altra violenza, o invece ne rifugge? Le vite e il lavoro di Herrick e di Harland dovranno giocoforza incrociarsi con le domande appese ai fili del destino di Loz e di Khan, tra contrade balcaniche dove la vita umana non vale nulla (c’è una notevole scena notturna in Albania, in cui Isis rischia la vita), bunker zeppi di apparecchiature per la sorveglianza elettronica, un’isoletta sul Nilo dove la vicenda avrà una svolta drammatica, per finire all’Empire State Building…
Lentamente, con una tecnica narrativa abile nel mantenere la suspense senza dimenticare una credibilità, romanzesca, certamente, ma comunque lontana dagli stereotipi più superomistici e bondiani, questo abile nipotino di John LeCarré che risponde al nome di Henry Porter ci chiude in una rete di dubbi, sospetti, inganni, paranoie da complotto e controcomplotto, in cui anche i "buoni" devono tenere chiusa l’anta dell’armadio, per impedire che ne caschino gli scheletri. Intercettazioni, pedinamenti, perquisizioni illegali, rapimenti, agguati, torture… Anche se con una forte impronta psicologica, Rebus non manca di momenti di azione, descritti in modo tale da indurmi a pensare (impressione del tutto personale) che l’autore sia contrario alla violenza: una volta finito lo scontro, e portate via le vittime, alla fine vince davvero qualcuno? Un solido romanzo di spionaggio, fatto per intrattenere, ma che, come accade con la buona letteratura di genere, solleva anche domande cui non è facile rispondere: si può torturare qualcuno per prevenire un attentato? Un quesito cui ognuno può rispondere dentro di sé. Con la tiepida speranza che chi nella realtà è istituzionalmente preposto, per dirla in termini burocratici, a sventare una minaccia fattasi onnipresente e impalpabile, conosca la risposta giusta.
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