Nora Davis, una giovane ragazza americana accanita lettrice di romanzi gialli, è a Roma per una breve vacanza. Coinvolta suo malgrado in una serie di omicidi a opera di un misterioso assassino che sceglie le sue vittime seguendo le lettere dell’alfabeto, Nora, forte delle sue letture e con l’aiuto di Marcello, un medico innamorato di lei, inizia a indagare…

 

Dopo alcune lunghe inquadrature su un aereo in volo, quasi a voler conferire alla storia che sta per iniziare (anzi che è già iniziata…) un certo distacco dalle vicende terrene, fa la sua comparsa quella che sarà una costante di La ragazza che sapeva troppo, ossia la voce narrante che così recita:

"Questa è la storia di una vacanza, una vacanza a Roma, la meta sognata da tutti gli americani dai sedici ai settanta anni, e Nora Davis ne aveva venti. Giovane, piena di vita, romantica, sfogava il suo desiderio di evadere dalla realtà con la lettura dei libri gialli, ma questo sarebbe stato l’ultimo. Lo aveva giurato a sua madre e la signora Ethel, la vecchia amica di famiglia che doveva ospitarla, avrebbe controllato…".

 

Anche tale voce, tutt’altro che inquietante o capace di trasmettere anche un debole segnale di allarme, contribuisce, assieme alla leggerezza dell’aereo sospeso in volo, a rafforzare l’idea che stavolta ci si troverà di fronte a un giallo che pur destinato a esercitare una profonda influenza sul cinema italiano di genere che seguirà, lo farà solo attraverso una pressoché totale trasformazione del suo contenuto, con Argento che in primis attribuirà alle coordinate tracciate dal quinto film di Mario Bava una pesantezza sconosciuta al capostipite.

Se qualcosa di non particolarmente convincente accompagna il film, definito non a caso "… un film più da direttore della fotografia che da regista" (Alberto Pezzotta, Mario Bava, Editrice Il Castoro, pag. 35) è l’appariscente frattura tra la parte oscura della storia e la parte luminosa, tra la trama gialla, riconoscibile, e i tocchi da commedia (ancor più riconoscibili). La prima parte è quella nella quale Bava (con la collaborazione del fidato Ubaldo Terzano) è più a suo agio, così che è proprio nelle scene notturne, quelle in esterno a piazza di Spagna e quello in interno in tre appartamenti diversi, che Bava raggiunge notevoli risultati grazie al ricorso costante a un’illuminazione ottenuta con tagli di luce spesso obliqui e orientati dal basso verso l’alto, giocando molto anche su un rovesciamento delle convenzioni dove non è detto che chi indaga benefici di più luce rispetto all’omicida. La seconda parte, leggera come si conviene a una commedia che sembra ispirata a Vacanze Romane, non fa una grinza, ma finisce col non incontrare mai l’altra parte, penalizzando oltre misura l’intero film.

Se poi si volesse sostituire ai due universi testé citati o affiancare loro un’altra dicotomia, questa sarebbe senza dubbio quella tra sogno e realtà, ma anche stavolta lo scollamento tra i due universi è lungi dall’essere adeguatamente risolto, con il finale che insinua il sottile dubbio che tutto ciò a cui Nora ha assistito potrebbe essere stato soltanto il frutto della sua immaginazione, corroborata un po’ dalle sue letture “gialle” e un po’ dall’effetto di alcune sigarette alla marijuana che Nora ha ricevuto all’inizio del film da un compagno occasionale di viaggio (gustosa comunque la gag che vede il pacchetto che scagliato lontano da Nora venire raccolto da un prete che passa lì per caso…).

A distanza prima di due anni (Sei donne per l’assassino) e poi di nove (Reazione a catena), Bava tornerà di nuovo a percorrere il campo del thriller. Sarà però un Bava assai diverso; non più feroce, come sembrerebbe di primo acchito, semplicemente più amaro nella riflessione sul genere umano il cui semplice vivere genera mostri.

Se i tempi cambiano, forse è giusto che il cinema cambi assieme a loro.