Capitolo primo
Bruna sapeva che quell’uomo prima o poi avrebbe cercato di assassinarla. Faceva parte del gioco, era scritto nel destino di chi, come lei, conduceva un’esistenza addomesticata. Da giorni nel ventre le pulsava un male feroce, un fagotto scoppiato all’improvviso, come se avesse ingoiato un nido di calabroni. Vacillò. Bruna che era sempre stata agile, leggera, cadde pesante sulla neve. Il motore della sua vita si stava inceppando. Non poteva che essere la morte. Arrivata all’improvviso. Voluta da lui.
L’istinto le diceva di arrendersi, invece si ribellò e con fatica si mise in piedi. Fu come se sollevasse un macigno. La furia tossica le rubava ossigeno e il respiro era ostacolato dalla collana che stringeva sulla gola. Bruna provò a strapparsela di dosso, ma non ci riuscì. Quella collana non le era mai piaciuta, era stato un dono fatto con malevolenza. L’uomo gliela aveva infilata nel sonno, di soppiatto, per commettere una stregoneria. «Non dovrai mai toglierla, altrimenti morirai».
Bruna oscillò, cercando di trovare il confine fra cielo e terra, ma il mondo ballava su una musica sconclusionata. Scosse il capo con violenza, per cacciare da sé quella risonanza. Perse l’equilibrio, piombò di nuovo sulla neve. Era stata sciocca e maldestra ad assecondare il suo assassino. Gli aveva dato fiducia, lo aveva fatto anche per i suoi tre figli, ma non avrebbe mai dovuto accettare l’ultima lusinga.
Il sangue gocciolava sulla neve e raccontava molti dei folli percorsi di quelle ore. Sulla coltre bianca erano disegnate – in rosso rubino – curve a zigzag, cerchi, onde interrotte, sentieri intrapresi e poi abbandonati, triangoli, grovigli, passi affondati e dolenti. Era il tracciato della sua lenta agonia. Aveva inghiottito una gran quantità di neve senza riuscire a placare la sete. Doveva raggiungere il fiume Marti per immergersi, liberarsi dal maleficio, far scorrere l’acqua dentro di sé, ma le giunse l’eco della vita: i suoi piccini, stremati, chiedevano aiuto. Lanciò uno sguardo verso di loro, laggiù, lontano… Bruna non ebbe neanche la capacità di rattristarsi. Quella mano cattiva aveva afferrato ogni parte del suo corpo e le sue mammelle versavano sangue e latte avvelenato. Decise di stare immobile. Solo gli occhi marroni mostravano l’impeto di quell’istante. Ragionò. Doveva utilizzare le poche forze rimaste per un gesto decisivo. Lasciare un segno, dare all’uomo ipocrita la condanna perpetua, dichiarare la sua infamia, svelare il delitto a tutti i suoi simili. Inutile tracciare qualcosa sulla neve che si stava sciogliendo. Raccolse l’ultimo respiro. Dalla bocca le uscivano bava e sangue. Strisciò sfinita sulla neve, raggiunse la meta: non era più il fiume, che come un miraggio appariva qua e là, né i suoi tre figli, che gemevano lontano, irraggiungibili. Si attaccò a un abete rosso: era lì che doveva lasciare il messaggio, indelebile, della sua rabbia. Con una volontà animalesca si allungò sull’albero, affondò le unghie nella corteccia ammorbidita dal muschio, grattando fino a farle sanguinare, e scavò sul tronco una serie di linee inconfondibili. Prima di morire, scrisse il nome del suo assassino.
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