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Pianura alluvionale del Pantanal, Mato Grosso (Brasile), sei mesi più tardi

I grandi getti d’acqua a pressione conferivano un’atmosfera da girone infernale al paesaggio intorno al giacimento di Balançal. Era il primo punto di estrazione prescelto dagli ingegneri di Helmut Gregor. Diversi minuti dopo lo spegnimento degli impianti, l’acqua nebulizzata gravava ancora su tutta l’area. Nelle fasi di maggior attività il luogo somigliava a un punto di confluenza di grandi fiumi, qualcosa di simile alle grandi cascate dell’Iguaçu, per il fragore delle pompe e l’ingente umidità. Agli uomini non dispiaceva affatto lavorare in quelle condizioni. Trovarsi perennemente zuppi rendeva sopportabile il caldo e proteggeva dalle insolazioni; ma nessuno di loro immaginava le malattie articolari di cui avrebbero patito negli anni a venire.

Con l’ausilio di potenti turbine, l’acqua veniva aspirata dalla falda e sparata all’interno negli alvei di antichi fiumi, abilmente individuati dall’ingegnere minerario Hans Maler, nelle cui rocce era mescolato l’oro in forma di pagliuzze, lamelle, fili o più raramente pepite. Una ragnatela di canali di legno a sezione rettangolare, muniti di griglie per eliminare i ciottoli in sospensione, convogliava le acque torbide verso un invaso artificiale dove quindici mezzi meccanici, dotati di bracci telescopici e terminazioni concave, denominate “batee”, setacciavano di continuo il fondo, per separare le particelle d’oro dalla fanghiglia. Altro minerale veniva recuperato direttamente sulle scalette dei canali di legno. Si trattava delle particelle libere che precipitavano sui gradini, grazie alla progressiva diminuzione della velocità dell’acqua nel percorso tra gli alvei e l’invaso. Al recupero di queste particelle erano destinati gli uomini più fidati di Gregor, scelti personalmente dal titolare della compagnia; ma una squadra di guardiani ben addestrati sorvegliava ugualmente il lavoro di tutti. 

L’oro era una tentazione troppo forte per degli operai mal pagati, sottratti alla miseria ma costretti a turni di lavoro massacranti; e nascondersi una pepita o delle pagliuzze in una tasca poteva essere una facile soluzione per sostentare la famiglia che viveva nella baraccopoli ai margini del giacimento, o lasciata a Formoso, Cáceres o Cuiabá. 

Gregor lo sapeva bene, per questo aveva improntato la vita della miniera a una rigida disciplina, soggetta a controlli ferrei durante tutta la giornata lavorativa, sullo stesso modello di Auschwitz, e i guardiani erano autorizzati a scoraggiare qualunque tentazione nel modo più sbrigativo ed esemplare. Il risultato era un ambiente di angosciosa produttività e di brutali sopraffazioni in nome del prezioso metallo delle pianure, sul quale vigilava discretamente Helmut Gregor: “l’italiano”, come lo chiamavano sottovoce gli operai, manifestando più di un sospetto riguardo alla vera identità del padrone assoluto del Pantanal. L’uomo che in pochi mesi aveva messo le mani sulla quasi totalità del territorio avviando lo sfruttamento di tre giacimenti, più il sito di Balançal, e pianificando l’apertura di altri cinque dopo la stagione delle piogge, uno dei quali presso la ricchissima e fino a quel momento inaccessibile vena di Alta Floresta. 

Gregor trascorreva quasi tutto il tempo nell’alloggio sul lato nord del giacimento. Un edificio costruito in cima a un’altura artificiale ricavata con il materiale estratto dalle cave, in cui erano ammessi soltanto Hans Maler e un paio d’ingegneri idraulici. Dalla terrazza posta all’ultimo piano era possibile controllare a vista l’intero Balançal. 

Un’ala della casa era adibita a laboratorio, e in quell’ambiente l’italiano conduceva le attività di suo maggior interesse.

Avere campo libero nel Pantanal gli permetteva di entrare in contatto con le tribù indigene sparse nella vasta pianura alluvionale, anche se fino a quel momento si era dovuto dedicare per lo più all’acquisto delle concessioni e alla messa in opera dei giacimenti. Ma ora le imprese erano ben avviate e il fidato Maler avrebbe gestito il resto delle operazioni con la sua competenza e il suo pragmatismo.

Durante le perlustrazioni del Pantanal alla ricerca dei siti auriferi più promettenti, la prima tribù indigena che Gregor aveva conosciuto era stata quella dei makinwa. Vere e proprie creature delle foreste. Scuri, furtivi come piccoli cinghiali. Esseri la cui umanità affiorava a fatica nelle pieghe di un aspetto tozzo, ferino, dissolvendosi continuamente in grida, ghigni di gengive sdentate, larghi nasi che si arricciavano come quelli dei primati; ma che balenava tutta intera negli occhi scintillanti quando tornavano al villaggio con i trofei di caccia. 

I makinwa vivevano in piccole e remote comunità, forti di un passato millenario che li aveva protetti persino dalle invasioni europee. Conoscevano come pochi l’arte di ritrarsi, confondersi e sparire. Si ritenevano simili agli spiriti dell’aria che recano il respiro e possono a loro gusto sfrecciare lontano, sottraendo la vita.

Un mese prima, Gregor si era introdotto in un villaggio makinwa accompagnato da una guida brasiliana che conosceva il tedesco, l’ingegnere Maler e due portatori per l’equipaggiamento e le armi. Aveva suscitato prevedibili timori, che tuttavia erano stati fugati in sole quattro visite con generose elargizioni di perle fasulle. Grazie al suo acume, esprimendosi a gesti con il capo villaggio e osservando la condotta degli abitanti, Gregor si era poco a poco conquistato la fiducia della tribù, al punto che gli era stato concesso di assistere a un rituale esorcistico contro il dio-giaguaro, in cui danzatori mascherati si esibivano in danze forsennate intorno a un totem. In un’occasione, era stato ammesso a un banchetto dove le donne masticavano una sorta di colla lattiginosa che sputavano in scodelle colme di una mistura a base di erbe e carne, poi servita ai commensali. La guida brasiliana aveva intimato a Gregor e agli altri esploratori di mangiare senza indugio, altrimenti quella gente si sarebbe offesa a morte. L’italiano lo aveva fatto senza battere ciglio. Maler aveva rischiato di vomitare per il disgusto. 

Le visite ai makinwa erano segnate da interminabili tentativi di comunicazione. Né Maler, né la guida o gli aiutanti comprendevano le reali intenzioni dell’italiano; per loro quegli indigeni erano soltanto degli inutili selvaggi, esseri dai quali non si poteva imparare null’altro che una forma di primitivo adattamento alle spietate leggi della giungla. 

Ma Gregor aveva intuito la loro irriducibile capacità di sopravvivenza. 

Anche per questo aveva incaricato una squadra di guardiani di fare irruzione nel villaggio e catturarne cinque esemplari. 

Per alcuni giorni si era limitato a registrare ogni sorta di parametro fisico. Nel segreto del suo laboratorio utilizzò metri a nastro e calibri per misurare le proporzioni corporee dei prigionieri terrorizzati. Li pesò su bilance a molla, fece calchi di mani e piedi con il gesso, ne misurò i crani e ne stimò la forza muscolare con degli strumenti simili a dinamometri, riportando ogni valore in un registro con datario.

Quindi passò agli esperimenti. 

Tre degli indigeni erano ancora in vita, rinchiusi in stanze annesse al laboratorio. Uno di loro, un ragazzo di quindici o sedici anni, secondo le stime della guida brasiliana, era finito in coma, probabilmente irreversibile, dopo una trasfusione incrociata con un suo compagno. Un anziano era stato soppresso con un’iniezione di fenolo somministrata direttamente nel cuore, perché mal si prestava alle ricerche di Gregor. 

Nessuno dei collaboratori di Gregor conosceva la natura delle attività né la vera ragione di quelle morti. E a nessuno veniva in mente di fare domande. 

Quando Maler bussò alla porta del suo studio, l’italiano stava annotando l’esito delle ultime sperimentazioni.

«Se sei qui per una grana non è il momento», lo apostrofò Gregor senza voltarsi.

«Nessuna grana. Procede tutto normalmente». Maler fece un passo all’interno del laboratorio. Notando che Gregor non si degnava di guardarlo, disse: «Ti volevo mostrare questo».

Si avvicinò e poggiò sulla scrivania un oggetto di legno. Una corteccia d’albero con un dipinto nell’incavo.

Gregor la scrutò un istante, senza distrarsi troppo dalle sue annotazioni. «Cos’è?» 

«Si chiama chenchama», spiegò l’ingegnere. «È una raffigurazione pittorica, la forma d’arte più evoluta presso i makinwa. Era in possesso di uno dei tuoi amici che ha fatto il lavoro al villaggio».

«L’avrà preso come souvenir».

«Simao dice che è la chenchama più incredibile che abbia mai visto e voleva parlartene».

Gregor si irrigidì e si voltò verso la porta. Solo allora si rese conto che la guida brasiliana era sulla soglia, il cappello tra le mani.

Rivolse uno sguardo gelido all’ingegnere: «Perché quell’uomo è qui?» 

«Quando ha visto il disegno il poveretto si è sentito mancare», rispose Maler abbassando la voce. 

«Perché… quell’uomo… è qui!», ringhiò di nuovo Gregor. 

A quel punto Maler impallidì e con voce fievole balbettò: «Scusa… è che stava per svenire. Ho dovuto far intervenire il dottor Da Gama. Dopodiché ha insistito per venire di persona».

Gregor afferrò la corteccia e spinse in malo modo l’ingegnere verso la porta. «La prossima volta che porti qualcuno non autorizzato in questo edificio, ti sbatto fuori dalla miniera». Cacciò sia Maler che la guida e si chiuse dentro. 

Mezz’ora dopo aver ricopiato i dati, sbucò dal laboratorio e si diresse verso il vestibolo che precedeva la porta di uscita. Con sommo stupore si accorse che i due uomini lo stavano aspettando.

«Perché non dai un’occhiata al disegno?», insisté Maler.

Gregor si fermò sulla porta e rivolse il suo sguardo di fuoco all’ingegnere, il quale aggiunse, sollevando una spalla: «Forse è interessante».

«I makinwa non mentono agli alberi», disse in quel momento la guida brasiliana, con la voce che gli tremava.

«E questo che diavolo significa?», sibilò Gregor.

«Che secondo Simao il luogo raffigurato sul legno esiste davvero». 

L’italiano guardò il disegno. Rappresentava un complesso di edifici intorno a una grande piazza, al cui centro sorgeva una singolare costruzione piramidale costituita da alcuni blocchi sovrapposti di forma rettangolare e sormontata da una sorta di tempietto. Le facciate degli edifici erano scure. La costruzione centrale era della stessa tonalità, ma più brillante, perché inondata da un raggio di luce che pioveva direttamente dal cielo. 

«Non fosse per l’edificio centrale, si direbbe una città europea», commentò Maler. «Magari dell’Europa orientale. Una sorta di Budapest».

Simao si avvicinò all’italiano.

«È la Cidade Encantada do Roncador», disse in portoghese. 

Gregor gli lanciò uno sguardo interrogativo.

«Da sempre gli indigeni del Pantanal e delle montagne si tramandano la leggenda di questa città perduta». La guida si fermò un istante, strinse il cappello e si guardò intorno con aria timorosa. «Secondo gli indios, gli abitanti della Cidade sono stati annientati dal “Grande Tremore”, un evento che ha ucciso gli esseri umani ma che non è riuscito a distruggere la Cidade, i cui edifici sono rimasti in piedi con tutti i loro tesori». Simao indicò la corteccia tra le mani di Gregor. «L’indio che ha disegnato la chenchama deve aver scoperto e visitato la città. È la prima volta che vedo con i miei occhi una prova della sua esistenza».

«E secondo lei questa sarebbe una prova?», disse Gregor stringendo gli occhi.

«I disegni delle chenchamas sono testimonianze veritiere, sempre. È il modo indigeno di fotografare la realtà. I makinwa non mentono agli alberi», ripeté la guida. 

L’italiano osservò il disegno. «I loro tesori… Che cosa vuol dire?»

«Varrebbe la pena scoprirlo», commentò Maler.

«Solo dicerie. Sogni di menti primitive».

«Io andrei a parlare con gli indigeni».

«Non credo ci accoglieranno a braccia aperte, dopo…», Gregor s’interruppe, gettando un’occhiata alla guida brasiliana.

«Mi pare che tu sappia essere convincente, se vuoi», disse l’ingegnere.

«Non diranno una parola», sentenziò Simao. «Le leggende sulla Cidade Encantada sono custodite come il segreto più prezioso della cultura indigena. Si faranno uccidere piuttosto che aprire bocca».

Gregor restò in silenzio per un po’, lanciando sguardi ai due uomini e al dipinto. Infine ordinò: «Portatemi dall’uomo che aveva la corteccia, voglio sapere a chi l’ha rubata. Poi andremo al villaggio e staremo a vedere se non apriranno bocca».