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Formoso, giorno seguente

Si era alzato all’alba. Si era sbarbato, lavato, vestito di tutto punto. Quindi si era andato a sedere nella veranda, godendosi il clima piacevole del primo mattino. Dopo giorni di continui diluvi finalmente splendeva il sole.

Approfittò della quiete per accendere la pipa e riguardare gli appunti, la maggior parte dei quali annotati ai tempi di Auschwitz. Doveva riepilogare gli studi e riprendere confidenza con i suoi metodi. Di certo non avrebbe avuto l’abbondanza di soggetti di cui disponeva nel campo, ma i suoi confidenti brasiliani gli avevano confermato che quella parte di continente era la migliore per le ricerche. Gli insediamenti indigeni all’interno della zona alluvionale erano numerosi, anche se piuttosto remoti. Occorreva raggiungerli, conquistarsi la fiducia dei loro abitanti, ma non aveva dubbio alcuno che ci sarebbe riuscito. Poteva contare sull’aspetto piacevole, i modi affabili e consolanti. Sorrise al ricordo dei bambini zingari del campo che lo chiamavano “zio” e delle prigioniere ebree che s’infatuavano di lui.

Verso le otto finalmente arrivarono le due sorelle, con la stessa carrozza di cui si era servito lui il giorno prima. Rossìn accorse immediatamente a ricevere le padrone.

Le donne lo salutarono pregandolo di accompagnarle in casa. Erano entrambe molto alte, con occhi scuri e capelli ramati. La più anziana aveva una crocchia arruffata dall’umidità, la più giovane un foulard intorno al collo. Indossavano camicie e gonne di lino visibilmente logore. 

Mentre il vetturino scaricava il resto dei bagagli, la donna più anziana volle informarsi se l’ospite trovasse di suo gradimento la sistemazione e se Rossìn era stato diligente. Poi gli fu ordinato di sistemare le valigie nelle stanze e i tre si radunarono intorno al tavolo.

«Stavolta cosa avete spedito a Budapest?», si informò l’uomo, ravvivando la pipa con un acciarino. «Armi o denaro?».

Le due donne si guardarono. Fu la più anziana a rispondere. «Denaro raccolto dagli espatriati. E anche libri e liquori».

L’uomo fece un sorriso di scherno. «Ed è in questo modo che volete scatenare la rivoluzione? Con libri e alcol?».

«I comunisti non se ne andranno tanto presto, lo sappiamo tutti. Ma la speranza si alimenta anche con oggetti che infondono calore al cuore, o al sangue».

«Le armi le abbiamo spedite l’ultima volta», aggiunse la più giovane. La sorella le rivolse un’occhiata severa e si affrettò a precisare: «Armi di piccolo calibro. Solo a scopo di difesa personale. In Ungheria nessuno è in grado di organizzare una rivolta armata».

«Eppure mi dicono che entro un anno la rivoluzione potrebbe scoppiare davvero. Comunque non è un argomento di mio interesse», tagliò corto l’ospite, alimentando il fornello della pipa. «Sono qui in nome della vecchia amicizia tra Ungheria e Germania, ma i miei scopi sono tutt’altro che politici».

«Per esempio salvarsi la vita», osservò la più anziana.

L’ospite la fissò, ispirando attraverso il cannello. «Da quel punto di vista non ho problemi».

«Non si direbbe», replicò la donna. «Il suo avvocato ci ha riferito dell’attentato che ha subìto in Paraguay. A quanto pare la cercano sia gli agenti del Mossad infiltrati in Sud America che i servizi segreti statunitensi».

L’uomo si irrigidì. L’altra lo guardò di sbieco. «La fiducia, dottore», disse sottovoce. «Dobbiamo sapere tutto su chi ci mettiamo in casa». 

In quell’istante Rossìn appoggiò sul tavolo un vassoio con il caffè, formaggio fresco, pane a fette e marmellata di goiaba. Servì la bevanda nelle tazzine, in apparenza senza curarsi del silenzio che era calato sulla compagnia, e si congedò.

«Ho subìto un attentato», ammise l’uomo. «Ma come può notare lei stessa sono qui a parlarne. So come rimediare a certi inconvenienti».

«Questo è innegabile», disse la sorella anziana, prendendo la sua tazzina. «Altrimenti sarebbe finito fra i disgraziati di Norimberga».

L’uomo sorrise maliziosamente, espirando fumo. «E io? Posso sapere chi sono le mie munifiche ospiti?» 

«Lei sa tutto di noi, dottore. Non prende qualcosa?».

L’uomo scosse la testa. 

«E sa perfettamente che qui è al sicuro. Non è vero, Freda?»

«Verissimo», confermò la più giovane, che si servì una fetta di pane.

L’ospite osservò le due donne sbocconcellare la colazione, poi accavallò le gambe e sospirò. 

«Molto bene. E tanto per chiarirci fino in fondo, oltre a cicalare inopportunamente sulle seccature paraguaiane il signor Hessel vi avrà di certo informato che ho trasferito un discreto patrimonio dalla Germania a una banca di Cuiabá».

«Buon per lei», disse la sorella anziana, stringendo gli occhi vigili al di sopra della tazzina.

«E se mi aiuterete a farlo fruttare, molte delle vostre necessità potrebbero trovare rapida soddisfazione».

«Generoso da parte sua». La donna posò tazzina e piattino sul tavolo. «Tuttavia non sapremmo come aiutarla per mettere a rendita il suo denaro. Non siamo imprenditrici, di soldi non sappiamo nulla».

«Però avete delle conoscenze», replicò l’ospite in tono allusivo. «E spesso le conoscenze valgono più dei soldi».

«Ammetto che a Cuiabá abbiamo molti buoni amici, sia fra le autorità municipali che tra quelle statali. Ma la loro utilità dipende dagli scopi per cui vengono interpellati». La donna si appoggiò allo schienale, intrecciando le mani in grembo. «A cosa sta pensando, esattamente?»

«Concessioni minerarie. Oro, soprattutto. La pianura ne è ricca».

«Non mi sembra un buon affare», commentò la donna, mentre la sorella la guardava masticando. «Negli ultimi anni lo stato del Mato Grosso ha fornito concessioni a un numero così alto di società da prosciugare qualunque giacimento nel giro di un decennio».

«So anche questo. Ma nessuna di quelle società ha i mezzi finanziari di cui posso disporre io. Estrarre oro è costoso e a quanto mi risulta buona parte degli investitori è al momento scettica riguardo alle possibilità di rientrare dei capitali impiegati. Si tratta di vecchi coltivatori di caffè, poveri sprovveduti attratti dalla prospettiva di cavare ricchezza dal sottosuolo, ma senza alcuna idea di cosa significhi una simile attività su scala industriale». L’uomo si sistemò meglio sulla sedia. «Voglio che i contratti siano revocati e stipulati nuovamente con me. Posso pagare il doppio di quanto pattuito con le attuali imprese».

La donna rifletté. «Come crede di convincere il ministero del Commercio?»

«Facendo valere la clausola sulle percentuali che dovevano essere versate allo stato del Mato Grosso. Percentuali che nessuna società ha ancora pagato».

«Non potrebbe negoziare direttamente con i concessionari?»

«Sono troppi, sarebbe una perdita di tempo. Meglio lasciar fare ai funzionari del governo statale. Ritireranno i contratti per me e io tratterò con loro».

«E dopo?».

L’uomo sorrise. «Dopo verrà il lavoro. Ci sono molti vecchi amici pronti a raggiungermi da altre località del Sud America e dalla stessa Europa. Ingegneri minerari e idraulici, geologi, meteorologi ed esperti di clima. La manodopera non specializzata la assumeremo qui. Ci guadagneranno tutti. I vecchi concessionari, che hanno interesse a sfilarsi da un’impresa superiore alle loro forze. I funzionari del governo, se faranno rapidamente il loro lavoro. E anche voi due se mi aiuterete a contattare le persone giuste».

La donna gli rivolse un’espressione compiaciuta. «Ha pensato proprio a tutto, dottore». Anche la sorella più giovane annuì con aria convinta.

L’ospite si distese sullo schienale della sedia in vimini e fece un tiro di pipa. 

La donna aggiunse: «Ma c’è una cosa che non mi è chiara. Avrà capito che ho raccolto anch’io le mie informazioni prima di accettare di farla nascondere qui. Lei è un medico, un ricercatore, ha condotto studi sulla trasmissione dei caratteri. Cosa c’entra tutto questo con l’estrazione dell’oro?».

L’uomo attese un attimo, chiedendosi se poteva realmente fidarsi delle due sorelle. La più anziana era scaltra e vigile come una volpe. Di sicuro era a conoscenza di ciò che aveva fatto al campo. E sapeva bene che quelle storie non suscitavano alcuna simpatia, che la sua fama spesso lo precedeva provocando reazioni tutt’altro che lusinghiere. Ma era comunque vero che le sorelle condividevano con lui molto più di quanto loro stesse avrebbero ammesso. Erano sfuggite all’invasione di un popolo nemico, vivevano in un Paese lontanissimo dalla loro terra d’origine; nei loro occhi – specie in quelli della più giovane – vibrava il rancore delle fuggiasche, l’irrequietezza di chi è costretto a scrutare il volto altrui per indovinarvi il sospetto, o una conferma di lealtà. 

Decise di essere schietto.

«L’oro è un mezzo», disse, «e al tempo stesso un pretesto. Un mezzo per accrescere il mio patrimonio, come vi ho detto. Un pretesto per fare del Pantanal il mio regno. Proprio per continuare in tranquillità gli studi intrapresi in Germania».

«Capisco», disse la sorella anziana, distogliendo lo sguardo. Una smorfia di disgusto aveva contratto per un attimo il suo volto.

Poco dopo Rossìn si affacciò dalle scale chiedendo se avevano bisogno di qualcos’altro. «Porta la cachaça», disse la sorella più giovane. «Vorrei fare un brindisi». Il ragazzo eseguì e i bicchieri furono riempiti.

«Alla vecchia Ungheria», proclamò Freda alzando il suo bicchiere.

«Alla vecchia Ungheria», ripeté la sorella anziana senza entusiasmo.

«E alla Germania».

Sorseggiando il liquore, Helmut Gregor osservò distrattamente il factotum da sopra il bicchiere. Lo vide sistemare tazze, posare barattoli del caffè nella credenza.

Quindi si rivolse alle donne e chiese: «Credete sia possibile, in questa parte del Brasile, procurarsi il fenolo?».