Primi quattro capitoli del romanzo La mappa della città morta di Stefano Santarsiere (Newton Compton 2016).

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Termeno, Alto Adige (Italia), 13 febbraio 1949

Una voluta di nebbia aveva nascosto la rocca dopo il tramonto, lasciando scoperto solo il margine superiore che spiccava come la corona di un re. L’uomo indugiò su quella visione, rabbrividì e si strinse il bavero del cappotto, proseguendo lungo l’acciottolato che conduceva all’edificio. Quando vi fu vicino, scrutò l’imponente facciata e vide subito il segnale: una luce di candela alla finestra più a ovest. Si avviò all’ingresso della rocca, spinse un battente ed entrò nell’ampia corte interna, a quell’ora deserta.

Il funzionario lo attendeva in uno degli uffici del secondo piano. Non c’erano luci accese, l’uomo dovette procedere con esasperante cautela per non rovinare lungo i gradini di pietra. In cima alla scala a chiocciola, in fondo al barbacane settentrionale, finalmente intravide altre due candele distanziate da alcuni metri. Spiccavano come occhiaie luminose sul volto scuro della notte. Una era posizionata di fianco alla porta dell’ufficio. 

Il secondo segnale.

L’uomo raggiunse la porta e gettò un’occhiata alla stanza, illuminata unicamente dalla bugia che il funzionario teneva con sé davanti alla finestra. Uno scricchiolio sotto la suola di una scarpa fece voltare quest’ultimo, il quale sollevò la candela in cenno di saluto, si avvicinò al tavolo e con un movimento del capo indicò i documenti che spiccavano nell’alone della fiamma. Si trattava di un passaporto e un biglietto navale. L’uomo prese il passaporto e lesse i dati sulla prima pagina.

«Helmut Gregor. Nato a Termeno il 16 marzo del 1911». 

L’altro si accese una sigaretta utilizzando la candela. «Ci faccia l’abitudine. D’ora in avanti la conosceranno tutti così». Posò la bugia sul tavolo e osservò l’uomo controllare il documento pagina per pagina.

«E io continuerò a pensare a me stesso con il mio vecchio nome», disse l’uomo. «Il mio unico nome». 

Esaminò il biglietto. Un posto in seconda classe nel transatlantico North King che faceva rotta per Buenos Aires, in partenza tre giorni dopo dal porto di Genova.

«Dei soldi che mi dice?»

«Faremo trasferire i venti milioni di marchi all’istituto che ci ha indicato». Il funzionario si concesse una pausa. «Naturalmente abbiamo trattenuto quanto di nostra competenza».

Le labbra dell’uomo si distesero in un’espressione sardonica. «Com’è giusto», osservò. 

Per qualche istante il funzionario si limitò a fumare. 

«Resterà in Argentina?».

L’uomo non rispose.

«Non si fida, eh? Eppure si è rivolto a noi per le false generalità e per il biglietto».

«Ed è l’unico rischio che intendo correre». Infilò i documenti nella tasca interna del cappotto.

Il funzionario lo studiò nei riflessi tremuli della candela. Scrutò quella figura elegante che indugiava nella stanza, quel volto tondeggiante, la fronte ampia sotto i capelli scuri e i denti bianchi che spiccavano nel riflesso della fiamma. Migliaia di sventurati nel campo di Auschwitz dovevano aver temuto quella faccia come la stessa morte. Rammentò il terribile appellativo con il quale lo aveva sentito nominare in un’occasione: “l’angelo della morte”.

Schiacciò la sigaretta nel posacenere. «E allora arrivederci».

L’uomo lo guardò con indifferenza. «Non ci rivedremo mai più», ribatté. «Ora mi siete stati utili, ma voi italiani avete il tradimento nel sangue».

«Italiano è anche lei, adesso».

L’altro sorrise appena, scoprendo due denti centrali lievemente separati che, insieme ai capelli impomatati, gli conferivano un aspetto da roditore. 

«Fin quando ne trarrò vantaggio», replicò. «Poi mi libererò di quei documenti». 

E uscì dall’ufficio.