Si è conclusa da poche settimane la diciassettesima edizione del Far East Film Festival di Udine, quest’anno contrassegnata dallo slogan “The emotional chain reaction”, cercando dunque idealmente di riunire in un’unica frase tutte le anime del FEFF, da quella romantica a quella demenziale, il mélo e la commedia, senza tralasciare il wuxia, le arti marziali, il thriller, il fantastico e l’horror. Non essendo riuscita a vedere praticamente nessuno dei film che tenevo a vedere – Sara di Herman Yau, Port of Call di Philip Yung, Gangster Payday di Lee Po-cheung, The Continent di Han Han e The Last Reel di Sotho Kulikar – ho avvertito in maniera molto attutita l’eco della chain reaction a livello personale, ma sicuramente un’idea di quello che questa reazione a catena ha rappresentato nel suo complesso sono riuscita ad averla.
Innanzitutto, il FEFF 17 è stato un omaggio al cinema di arti marziali, che ha reso Hong Kong scenario amato in tutto il mondo: non solo c’è stata una retrospettiva dedicata al genere, con titoli quali Once Upon a Time in China 2 di Tsui Hark, ma anche un ulteriore simpatico omaggio con la pellicola Kung Fu Jungle di Teddy Chen, esplicitamente dedicata a coloro che hanno reso grande il cinema delle arti marziali citandoli nei titoli di coda. Donnie Yen, grande star del kung fu movie, qui nel ruolo di protagonista, non sembra particolarmente ispirato; a metterlo in ombra c’è Wang Baoqiang, notevole sia nella recitazione che nelle coreografie. Il regista, presente alla proiezione avvenuta la sera del suo compleanno, per festeggiare ha regalato otto copie del dvd del suo film a otto ignari spettatori a sorpresa, avendole fatte precedentemente nascondere sotto otto sedili scelti a caso.
Ma emozione al FEFF vuol dire anche mélo, e non a caso il film vincitore di quest’anno, Ode to My Father di JK Youn, è un’intensa e commovente epopea storica su sessant’anni di storia della Corea, fra eroismi improvvisati, sacrifici, lacrime e lotta per la sopravvivenza. La tendenza a far commuovere lo spettatore e l’esaltazione del gesto del singolo nel nome del bene della famiglia o del paese può a tratti sembrare un po’ retorica, ma il film riesce a ritrarre con forza e autenticità la sofferenza di una nazione, simboleggiata dalla vita di un singolo, e a renderla universale.
Dalle lacrime al sangue, l’anima noir del FEFF è spesso la facciata preponderante, come quella dei tradimenti impensabili fra fratelli giurati nel coreano Confession di Lee Do-yun, film dal bel ritmo e dai personaggi convincenti, anche se personalmente ho trovato la scena finale superflua e tendente a rovinare la compiutezza di quanto era già stato detto in precedenza.
Certo non si può dimenticare la commedia, che sia demenzial-nera come in The Gifted del filippino Chris Martinez, non certo un film memorabile ma con dei titoli di coda che da soli valgono tutta la visione del film, ribaltandolo con una certa dose di furbizia, o nostalgico-romantica (ma con unhappy ending) come nel cinese My Old Classmate di Frant Gwo, trama già vista sul filone apparentemente inesauribile degli amori adolescenziali che ritornano da adulti per rovinare (o far brillare) il presente. Ovviamente, non è mancata l’anima guerresca, fra gli altri nel cinese Brotherhood of Blades di Lu Yang, dove l’onnipresente Chang Chen (vedi Helios, altro film proiettato al FEFF 17) cerca di salvare se stesso e i due fratelli giurati Wang Qianyuan e Ethan Li dallo strapotere dell’eunuco di turno e altri cattivi di contorno (ma non troppo).
Ma il FEFF è anche un possibile spaccato sociale dell’Asia di oggi, ad esempio attraverso i cortometraggi hongkonghesi di Fresh Wave: da Being Rain di Chan Tze-woon, seppur in maniera confusa per chi non sa nulla della situazione politico-istituzionale dell’isola, veniamo a sapere che i cittadini di Hong Kong non hanno il potere di eleggere democraticamente i propri rappresentanti, scelti dal governo centrale della mainland, mentre dall’interessante Iphone Thieves di Louis Wong scopriamo che il furto di cellulari di ultima generazione è una realtà consolidata fra i giovani sbandati del Porto Fragrante. Peccato per il finale di redenzione, che secondo me toglie incisività alla storia.
Mi pare comunque che fra tutte le anime del FEFF quella che finisce spesso per prevalere, e che non a caso il pubblico tende a premiare tutti gli anni, sia soprattutto quella coreana. Che si tratti di commedia o dramma, romance o noir, da quando il Festival esiste, dall’ormai lontano 1999, c’è stata una graduale ascesa della presenza coreana sul podio, segno forse che i coreani riescono laddove molti altri falliscono: nel raccontare una storia autentica senza per questo risultare finti e patinati (come spesso accade ai cinesi, che scimmiottano il peggio dell’American Dream) o demenziali e a volte addirittura idioti (come appaiono i giapponesi).
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