Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 ci fu un’ondata di film provenienti dall’Australia che confermarono che Pic-nic ad Hanging Rock non era un fuoco di paglia. Peter Weir si è dimostrato un ottimo regista, Mel Gibson e Sigourney Weaver hanno rivelato che nel magico mondo di Auz c’erano attori carismatici, e decine di altri titoli minori ci offrirono una visione di un mondo cinematografico sino a quel momento solo sospettato. Se ormai di tutto ciò resta solo un ricordo e la macchina di produzione americana ha divorato e rigurgitato a suo modo molti nomi e idee, ci sono leggende rimaste nella mente di tutti. Una di queste è composta da solo tre film, dei quali solo due veramente originali australiani.
La saga di Mad Max sta per regalarci un nuovo capitolo con interpreti, capitali e, pensiamo, ispirazione nuovi, ma con lo stesso regista al timone. Val la pena forse di fare un passo indietro con la memoria.
Interceptor esordisce senza clamori. In apparenza questo film australiano chiaramente a basso costo si lega a due filoni particolarmente fortunati negli anni ’70 ma in rapido declino all’inizio del decennio successivo, i road movie sulle bande dei motociclisti e il “rape-and-revenge”. Materiale, diciamocelo, da doppio spettacolo, insomma una cosa da Serie B, a volte gradevole, spesso girata senza troppi ragionamenti. Lo stesso Mel Gibson è un bello muscoloso con gli occhi azzurri, ma uguale a mille altri. Manca una visione estetica d’insieme, tutto sembra un po’ raffazzonato, improvvisato ma è proprio da questo miscuglio a volte incongruo (il procuratore distrettuale occhialuto e incravattato che gira con la shinai e il casco da kendo, le moto stesse come l’abbigliamento dei raiders) che il film prende quota.
A guardar bene ci sono “in nuce” tutti gli elementi della mitologia della saga. Prima tra tutti la V-8, bolide rombante e mastodontico, lontano mille anni dalle vetture super accessoriate di Fast and Furious. Spicca quanto Toecutter (“Tagliadita” in inglese ma tradotto nella traccia nella nostra lingua come Teocatter!), feroce e sessualmente ambiguo capo di una banda di “eroi della strada”, motociclisti, sbandati che sono gli antesignani dei nuovi barbari che verranno. C’è, in questo paese non bene identificato ma che è chiaramente l’Australia lontana dalle metropoli, un senso di degrado che dalla stazione di polizia arriva sino alle cittadine sperdute qua e là. Poliziotti fuori di testa e guerrieri della strada s’inseguono senza ben distinguersi. La fine del mondo non è annunciata, ma s’intuisce. È nell’aria satura di idrocarburi combusti, di copertoni abrasi, di giubbotti di cuoio cotti dal sole.
Il problema di Max, poliziotto modello con tanto di mogliettina e figlio, è di trovarsi con il ben più esaltato collega Gus ad attraversare la strada della banda di Toecutter. Ne uccidono un folle componente dopo un iniziale inseguimento pieno di botti e cappottamenti e arrestano l’inquietante matricola del gruppo Kid, pieno di droga dopo uno stupro. Kid viene rilasciato per un cavillo ma giura vendetta. Alla morte per incenerimento di Gus, Max capisce di non poter continuare. Si dimette e parte per un lungo viaggio con la moglie e il figlio.
La sfortuna lo riporta a incrociare la banda e qui, dopo una parentesi idilliaca che risulta ancor più inquietante, si scatenala violenza dei motociclisti. A sua volta Max, rimasto privo di ogni affetto e sconvolto, diventa quello che temeva: uno psicopatico, maniaco del motore. Bracca e distrugge tutta la banda, capo compreso. Ma non finisce qui, acchiappa Kid e lo incatena per una caviglia a un’auto in fiamme. «Se hai abbastanza coraggio, puoi segarti il piede prima che esploda.» E se ne va così, senza curarsi d’altro.
Il vuoto della ragione genera mostri. I prossimi capitoli e la catastrofe mondiale sono alle porte. Ma, alla fine, il dettaglio più importante e caratterizzante (perso nel terzo capitolo) è il mix di grottesco e orripilante. Smorfie, stupri, dileggi da caserma, oscenità, mani tagliate e iperviolenza da cartone animato. Un miscuglio da cinema indipendente, da exploitation, appunto. Quel genere di spiritaccio che non piace alle majors alla ricerca del grande pubblico con gli effetti speciali. Qui invece è tutto sporco e terribilmente reale come gli stunt. Forse, a lungo andare, fu proprio quello che piacque al grande pubblico.
Mad Max: il guerriero della strada, arrivò sugli schermi italiani con un paio d’anni di ritardo rispetto alla produzione e dal pubblico, salvo qualche caso, non fu collegato al primo Interceptor. In effetti quella che era stata una bizzarria geniale veniva riassunta nei primi minuti di film in bianco e nero, formato quadrotto mescolando immagini di una ipotetica “rivolta mondiale” che aveva portato a una catastrofe. Poi l’immagine si allargava lasciando spazio all’outback australiano, paradigma del mondo ridotto a una sterminata terra perduta. Arrivavano i nuovi barbari che, nel bene o nel male, ispirarono in Italia (ma non solo) un filone che mescolava il western-spaghetti al mitologico reinventandosi un mondo nel quale i cavalli erano sostituiti da strane macchine e più dell’oro, più dell’acqua il bene agognato da buoni e cattivi era la benzina.
Qui, sulla sua V-8 Interceptor torna Max, ormai diventato Mad Max, un dannato che, persa la famiglia, il lavoro, ogni punto di riferimento si aggira con un bastardino malmesso quasi come lui (Max esibisce un tutore metallico di fortuna al ginocchio che se non oliato gli impedisce di piegare la gamba). È un cinico, un violento, un uomo che guarda l’orrore che lo circonda con l’occhio del sopravvissuto, pronto a cogliere ogni opportunità ma anche a gettarsi in sfide che potrebbero portarlo a una morte che inconsciamente cerca. In pratica il perfetto westerner. E un western è, in effetti, Il guerriero della strada che ripropone il fortino assediato dagli indiani nella più classica delle avventure. Fango, sudore e polvere da sparo.
Di tutta la storia, quello che si intuiva appena nel primo film, la trovata migliore sono gli Humugus, nuovi barbari in pelle borchiata e motociclette, a metà tra gli Hell’s Angels e i Village People. Esemplare è il moicano Wez (Vernon Wells che sarà poi sadico nemico di Schwartzy in Commando) che si porta appreso un efebico biondino la cui morte lo manda talmente fuori di testa che Lord Humungus (gigante culturista sfigurato con la maschera di ferro) deve incatenarlo per evitare azioni irriflessive e catastrofiche.
Il resto del film si racconta con un pugno di parole. Il canovaccio è classico. Il cinico diventa portabandiera del gruppo indifeso, a lui si unisce un buffo, ma simpatico aiutante in mini elicottero. Aggiungiamo qualche vecchietto e altri personaggi da macchietta, una bella biondina e una donna guerriera che prima è ostile poi ammirata, e il gioco è fatto. Il sottile (ma non inesistente) richiamo gay sadomaso funziona, basti pensare allo spiegamento di tute in cuoio borchiato, gambali a “chiappe al vento” e ferite e sevizie che il nostro riceve durante l’avventura. Ma il fulcro della storia, l’attenzione dello spettatore è catturata dalla fuga finale, un piccolo capolavoro senza CGI con vetture che rotolano nella sabbia rossa. Duelli ad alta velocità, armi primitive e tanta rabbia.
Decisamente, sino a ora, il capitolo meglio riuscito. E il suo successo doveva essere il passaporto per l’America per George Miller. Purtroppo come è accaduto per moltissimi altri (tutti i registi del cinema di Hong Kong, per esempio) Hollywood ha le sue leggi dominate da marketing, riunioni e contro riunioni, politiche degli Studios, tutte cose che ammazzano la vera creatività. Negli USA chi vuol fare del cinema realmente innovativo deve autoprodurselo o lavorare con piccoli gruppi indipendenti. Miller fu risucchiato in una produzione certamente più ricca ma che diede una mazzata terrificante al povero Mad Max che non si è rialzato più per trent’anni.
Gibson come interprete ha preso la sua strada, ma Miller si è perso in una marea di progetti esecutivi tra i quali Babe il maialino e Happy Feet, dirigendo non si sa come e non si sa perché le Streghe di Eastwick, tutte cose delle quali, sospetto, non vada fierissimo.
Sulla carta Mad Max oltre la sfera del Tuono aveva tutte le carte in regola per essere un successo; rivisto dopo tanti anni non è neanche sgradevole, ma quando uscì fu una delusione totale per i fan di Interceptor. Già il fatto che la regia sia firmata anche da George Oglivie dimostra che dal progetto Miller a un certo punto si sia staccato. Peccato perché la presenza di Tina Turner nel ruolo di Auntie, regina di Bartertown con annessa canzone dei titoli di testa erano una bella carta. I soldi anche se non moltissimi, c’erano. Ma era lo spirito dei primi film a mancare completamente. Mad Max alla fine aveva perso quella vena iconoclasta, feroce e grottesca che ne aveva decretato il successo ed era diventato un racconto per tutti. Il decòr si fa più sofisticato. Nella città del baratto i nuovi barbari perdono gran parte della rozza iconografia da locale gay-sadomaso per acquisire una visionarietà d’ispirazione nipponica, in fin dei conti, non pessima.
Nella prima metà il film si regge anche. Capello lungo e barba incolta, Max approda alla città del baratto per recuperare quello che, contro ogni logica di continuity, il pilota pazzo del secondo film gli ha rubato: un carico di cammelli. Eh sì, la V-8 è scomparsa e non riapparirà più. La visualizzazione della città però ha un suo senso e anche la trama per cui Max diventa ago della bilancia nelle lotte di potere tra Auntie e Master-Blaster, un duo mostruoso formato da un vecchio nano sapiente e dispotico e un gigantesco, feroce ritardato. Sino al duello nella cupola (che pure è bizzarro e poco spettacolare alla fine) andrebbe tutto bene.
Poi le carte s’imbrogliano, i patti si sciolgono e Max si ritrova dopo una marcia della morte nel deserto tra una tribù di bambini selvaggi in attesa del messia che li porti nella terra del Domani-domani, ossia una città distrutta dalla guerra nucleare. Qui va tutto a rotoli, come spesso accade nei film con i bambini. Non che non sia diretta bene, ma la mezz’ora in cui il cinico Max diventa il salvatore dei sopravvissuti, ammazza il personaggio. È vero che anche nel primo film c’era una situazione simile ma realizzata in modo molto più secco e coerente con il carattere di Max. Qui poi si tratta di tornare a Bartertown, recuperare Master che è diventato buono e fuggire questa volta su una motrice di un treno.
Arriviamo poi a un inseguimento lunghissimo, poco spettacolare, totalmente privo di sangue e budella. Manca in particolar modo un vero cattivo che stia al confronto con Lord Humugus e Wez. Alla fine persino Auntie diventa simpatica e, inspiegabilmente, lascia il nostro eroe vivo. Finale messianico con i bambini che riaccendono le luci tra i grattacieli distrutti.
E adesso aspettiamo Fury Road che Miller finalmente ha girato dopo mille difficoltà, rinvii, rinunce. Contrasti con Gibson annullarono il progetto nel 2000, poi vennero le Torri Gemelle e il dopobomba non sembrava più di attualità agli esperti di marketing americani (ma dove li pescano questi?) e infine difficoltà varie. Tom Hardy mi sembra ben trovato, diverso dal modello originale ma, soprattutto dopo Bronson, stella in ascesa con capacità differenti (basta guardarlo quando fa Bane in Batman e poi Tarr in La Talpa), Charlize Theron impersonerà Imperatrix Furiosa e Immortan (sic!) Man sarà lo stesso interprete di Toecutter, Hugh Keays-Byrne. Della storia poco si sa, salvo che sarà, ovviamente una corsa nell’Outback. Certo, oggi siamo nell’era del digitale e i bei vecchi road movie con i veicoli veri e gli stuntman lasciano spazio alla computer graphic.
Attendiamo con il fiato sospeso...
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