Uscito da poco per edizioni e/o, La firma del puparo di Roberto Riccardi è il terzo libro della serie del tenente Liguori, lanciato dalla collana sabot/age, diretta da Colomba Rossi e curata da Massimo Carlotto.
Il romanzo si apre in terza persona, con una mattanza di tonni che risente di implacabili tecniche di pesca e che si incrocia con un'altra uccisione, sulla terraferma, ma questo è solo il preambolo. Perché la scena si sposta in carcere, dove il detenuto Nino Calabrò annuncia di voler collaborare con la giustizia solo a due condizioni: che la sua famiglia venga protetta e che le indagini siano seguite dal tenente Rocco Liguori. Tra i due non è potuto rimanere nulla dell'amicizia che li legava da bambini, perché la vita ha separato irrimediabilmente le loro strade, facendo di Calabrò un esponente della 'ndrangheta e dell'altro un uomo devoto alla legge.
Rocco Liguori, che parla in prima persona, si trova invischiato in un'indagine che parte dalla scomparsa di un giornalista coraggioso, Michele Sanfilippo, "capace di trafiggere la mafia con le sue parole affilate" e perciò scomodo: ecco perché è stato fatto sparire. Calabrò, come prima dimostrazione di collaborazione, indica il luogo in cui è stato sepolto e quello che viene rinvenuto sono ormai le spoglie. Da qui, come se fino a questo punto fosse stato sullo sfondo, salta in primo piano, pur senza apparire direttamente, ma presenziando come un'ombra sinistra, il puparo.
Chi è il puparo? Colui che muove i fili dietro le quinte, il braccio e la mente che aziona i burattini. Peccato che stavolta si tratti di burattini umani e che, dietro gli atti criminosi, si celino i progetti delle mafie, con relativi interessi, vendette e scambi di favori.
Roberto Riccardi, colonnello dell’Arma e giornalista, barese classe '66 trapiantato a Livorno, conosce bene la materia che tratta, anche perché ha alle spalle un'esperienza notevole. Ha lavorato a Palermo negli anni delle stragi, poi in Calabria, a Roma, in Bosnia e Kosovo quale componente dei contingenti di stabilizzazione. Già conosciuto per i romanzi "Undercover. Niente è come sembra"(2012) e per il romanzo sullo sfondo delle guerre balcaniche "Venga pure la fine"(2013), candidato al Premio Strega 2014, ha pubblicato anche libri sulla Shoah.
Qui procede con stile sicuro e pulito, con un periodare perfettamente equilibrato tra azione e descrizione, dialoghi e riflessioni. Una scrittura che ormai lo constraddistingue e che viene ancora più padroneggiata rispetto ai già riusciti romanzi precedenti – che, per inciso, hanno vinto diversi premi, tra cui l'Azzeccagarbugli.
Concludo con una sciocchezza. Un ringraziamento personale all'autore. Perché è riuscito a trasmettermi, come lettrice, l'emozione di una cosa che non ho mai osato fare, pur tentata di provare, e che mi spaventa moltissimo: il lancio col paracadute. Leggete le pagine 22 e 23 e vi sembrerà di essere lì con Liguori, sospesi nel vuoto:
«L'infinito era lì e si toccava, aveva un'intensità che potevo abbracciare. Aprii la bocca e mi entrò nei polmoni, a occhi chiusi continuai a vederlo, meraviglioso come l'istante in cui ti innamori, sorprendente come un arcobaleno.
Era un'emozione misteriosa, originata da un segreto che a raccontarlo non si svela, per conoscerlo bisogna stare lassù, bisogna essere una foglia».
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