Ryu, sordomuto dalla nascita, vive con la sorella gravemente ammalata e bisognosa di un trapianto di rene. Deciso ad aiutare la sorella, Ryu entra in contatto con una banda di trafficanti d’organi per ottenere, dietro il pagamento di una grossa somma di denaro, un rene compatibile con il gruppo sanguigno della sorella.

Ma la situazione precipita e Ryu si ritrova derubato del denaro e con un rene in meno.

Disperato si lascia convincere da Young-mi, la sua fidanzata, a rapire la figlia di un ricco industriale. Ottenuti i soldi del riscatto Ryu è convinto di poter finalmente aiutare la sorella ma quest’ultima si toglie la vita. Mentre Ryu dà sepoltura alla sorella, la bambina rapita muore accidentalmente.

Ryu decide allora di vendicarsi dei trafficanti d’organi mentre il padre della bambina inizia ad indagare sugli autori del rapimento…

 

Scrivere di e su Sympathy for Mr. Vengeance equivale a scrivere sull’inizio di un trittico che giunto con Old boy (Premio alla regia a Cannes 2004) al secondo capitolo e in attesa di quello definitivo (Sympathy for Miss Vengeance, in concorso a Venezia a fine agosto) ha fatto piazza pulita di tutto ciò che si era visto in termini di vendetta perlomeno negli ultimi anni, così che per quanto la Sposa di Tarantino sciabolando allegramente a 360° intuisca alla pari dei protagonisti di Park Chan-wook come la vendetta sia un piatto che va servito freddo, al confronto con quello che Park Chan-wook mostra di saper far vedere, la Sposa e il suo demiurgo finiscono con l’apparire figurine sfocate di fronte alla grandezza dell’universo affrescato da Park Chan-wook, universo che non è mai stato così concluso.

 

Il concluso di un istante fa è soltanto una delle innumerevoli piste lungo le quali si muove il cinema del Nostro. Basti sapere che non c’è verso che uno spillo lasciato cadere dal punto superiore del perpendicolo dove il Nostro piazza preferibilmente la sua cinepresa per osservare le umane vicende (una plongée insomma…) tocchi terra senza aver prima provocato una catena di reazioni tutt’attorno.

È così che vanno le cose, visto che nulla, ma proprio nulla, in Sympathy for Mr. Vengeance (così come in Old boy…) sembra messo lì a caso, superfluo insomma, mentre tutto, ma proprio tutto, risponde all’appello di una causalità estrema.

Nulla rimane fine a se stesso o incompiuto, mentre ogni cosa, una lettera, una collana, una foto, un brandello di conversazione radiofonica orecchiato attraverso un muro, uno squillo di telefono, un volantino, uno dei tanti tagli che lacerano la carne, un espianto d’organo, un handicappato che vive sul greto di un fiume, è destinata ad incastrarsi all’altra con assoluta perfezione dando vita ad una storia che alla fine non può fare a meno di lasciare stupefatti e al tempo stesso tramortiti anche per via di un finale capace di scombussolare tutte le attese fin lì covate.

Già, perché la faccenda è questa: è raro, molto raro oggigiorno, imbattersi in storie del genere, capaci di reinventare con tale meticoloso rigore e con altrettanta feroce lucidità un tema certo universale, di certo fortemente abusato (perlomeno al cinema) come la vendetta, reinvenzione che passa attraverso un perfetto equilibrio tra scrittura e messa in scena, tra ideazione e rappresentazione, in definitiva tra pensiero e realizzazione.

 

Quello che lascia basiti è che Chan-wook sembra a suo agio con tutte le possibili sfumature che la storia assume di volta in volta, sfumature sorrette da un talento visivo-pittorico fuori dal comune, con la macchina da presa che quando non è in plongée sulla storia (sul mondo), rimane pressoché ferma variando solo, tra un’inquadratura e l’altra, l’angolazione, una cinepresa sempre perfettamente in grado di offrire il migliore punto di vista dal quale osservare squarci di mondo sospesi nel preciso istante che precede qualcosa di terribile.

Prendiamo l’inizio, dove la voce femminile di una trasmissione radiofonica legge la lettera che Ryu ha spedito alla redazione, lettera nella quale descrive la sofferenza della sorella gravemente malata, oppure la scena dove il padre disperato di ritorno dall’autopsia della figlioletta ritrovata morta affogata se la vede comparire di nuovo davanti come se fosse ancora in vita. Puro melodramma si dirà, magari basso per impietosire lo spettatore che certo di fronte alla battuta che la bambina rivolge al padre "Perché non mi hai mandato a lezioni di nuoto?", non può rimanere indifferente o far finta che non sia accaduto nulla.

In un certo senso è così, Park Chan-wook è capacissimo di toccare il cuore con il sentimento, ma c’è anche dell’altro, perché con altrettanta dimestichezza sa infilare momenti di umorismo paradossale, come la scena dove la fidanzata di Ryu gli racconta la storia di un uomo con due teste ognuna delle quali afflitta da emicrania. Disperato l’uomo finisce con lo spararsi a una delle due. Un attimo di pausa e Ryu le chiede se si è sparato a quella di destra o a quella di sinistra.

Ma con altrettanta disinvoltura sa passare a torture di tale ferocia (come quelle del padre in vendetta) che fanno impallidire quello che si vede in Old Boy (altro capolavoro del Nostro…) che già di suo non scherza.

Al cinema di Park Chan-wook non manca nulla: storia, direzione degli attori (formidabili e completamente sconosciuti qua da noi), immagini, che finiscono presto col contare più delle parole (basti pensare che Ryu, il protagonista, è sordomuto mentre Oh Dae-Su, il prigioniero di Old boy nel finale si taglierà la lingua).

Ancora: narrazione forte ma con al suo interno ellissi improvvise che calano implacabili sui momenti che si direbbero cruciali (per esempio del rapimento della bambina non è mostrato nulla).

Ma la caratteristica migliore del cinema di Park Chan-wook è una soltanto, quella che accompagna sempre il cinema migliore, quella di non assomigliare a nulla di ciò che si è già visto, di essere insomma un cinema capace di somigliare solo e soltanto a se stesso.