Figlio di un medico, nato il 22 gennaio 1906 in un paese del Texas, Peaster, trascorrerà quasi tutta la vita in un paesino periferico, Cross Plains. Introverso e schivo, gracile di costituzione e vittima di bullismo da parte dei compagni di scuola, si rifugia nella lettura dei classici avventurosi ma al contempo si applica nello sport tanto che in età adulta avrà un fisico ben sviluppato e possente. Dal punto di vista caratteriale resterà però sempre timido e chiuso in sé, tanto che gli si conosce una sola avventura sentimentale (romanzata nel film di Dan Ireland Il mondo intero del 1996). Molto legato alla madre, si suiciderà sparandosi un colpo di rivoltella in auto l’11 giugno 1936, dopo aver saputo della morte di lei: per ironia della sorte la madre, che era tubercolotica, si sarebbe invece risvegliata dal coma (morendo però il giorno dopo).
Come lo scrittore che abbiamo presentato nel precedente volume di questa collana, Volo su Titano di Stanley G. Weinbaum, anche Howard fu attivo per pochi anni ma ci ha lasciato una miriade di scritti appartenenti a praticamente tutti i generi della narrativa popolare. Il suo esordio avvenne nel 1925 su “Weird Tales” ma è solo nel 1928, dopo aver lasciato l’università e fatto mestieri diversi, che inizia a pubblicare con regolarità. In particolare proprio su questa rivista di cui diviene una colonna portante assieme a Clark Ashton Smith e Howard Phillips Lovecraft ( i Tre Moschettieri di “Weird Tales”) pubblica storie fantastiche creando personaggi come lo spadaccino puritano seicentesco Salomon Kane, il re di Atlantide Kull di Valusia, i guerrieri celti Turlogh O’Brien e Bran Mak Morn, e racconti horror, inserendosi poi anche nel ciclo dei “Miti di Chtulhu” inventato da Lovecraft. E sopratutto quel Conan il Barbaro oggi conosciutissimo grazie anche al fumetto e al cinema (Conan il barbaro di John Milius del 1982 e vari seguiti, spin-off e remake) dopo la sua riscoperta negli anni Sessanta a opera di Lyon Sprague deCamp che risistemò organicamente l’intero ciclo aggiungendovi di suo storie di raccordo tra una vicenda e l’altra fino a riempire undici volumi. Con questi scritti il Nostro può essere considerato il creatore di quel genere che oggi chiamiamo fantasy, o almeno di quella parte del fantasy più avventurosa e sanguigna che si può definire heroic fantasy per distinguerla dalle opere più sofisticate di J.R.R. Tolkien e simili.
Ma Howard scrive di tutto, su molte riviste: racconti sportivi in particolare di pugilato, racconti storici, polizieschi, horror, commedie brillanti, storie piccanti, avventure in genere, e ovviamente western.
Infatti, nella sua breve ma intensa carriera Robert Erwin Howard ha lasciato traccia di sé e della sua straordinaria capacità affabulatoria in quasi tutti i generi della narrativa pulp (escluso, almeno scientemente perché in effetti qualche racconto classificato come tale esiste, quello poliziesco – “riesco a malapena a leggerlo, non potrei mai scriverlo” si può leggere in una sua lettera), e data la sua origine e l’ambiente dove era cresciuto, resta facilmente comprensibile come il western potesse (e dovesse) essere il suo terreno di pascolo più praticato. Il fatto che non sia stato così almeno in vita (Howard ha comunque scritto più di una cinquantina di western propriamente detti, più un manipolo di weird-western, meno di un terzo dei quali effettivamente pubblicati durante la sua vita), è dovuto a tutta una serie di fattori che lo distrassero da quella che era in effetti la sua vocazione. Una volta arrivato a trovare un mercato per le sue storie western (in particolare quelle “umoristiche” di Breckinridge Elkins, che trovarono casa sulle pagine di un pulp non propriamente western – anche se aperto al genere – come “Action Stories”), come ebbe a scrivere in una lettera a August Derleth del novembre del 1935 (e a riconfermare in una lettera del maggio del 1936 all’amico H. P. Lovecraft, poche settimane prima della sua morte), “Sto seriamente valutando l’idea di concentrare ogni mio sforzo sulla narrativa western, abbandonando ogni altro genere narrativo.....vi è stato scritto tanto, ma c’è ancora così tanto da scrivere”.
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