I love you. Questo lo slogan del Far East Film Festival di quest’anno, conclusosi il 3 maggio 2014 con l’Audience Award al dramma nazionalista giapponese The Eternal Zero di Yamazaki Takashi, campione d’incassi in patria, seguito dal sud coreano The Attorney (anche vincitore del Black Dragon Award) di Yang Woo-seok. Un atto d’amore che gli organizzatori del FEFF rinnovano ogni anno incondizionatamente verso il cinema orientale, cercando di mostrarne i lati più caleidoscopici ad un pubblico di appassionati e semplici curiosi che sta diventando sempre più numeroso, ma anche un atto di fiducia verso un mercato cinematografico destinato a dettare legge nel futuro prossimo, non solo per la presenza del colosso cinese, ma anche e soprattutto perché i giovani asiatici costituiscono la prepotente spina dorsale dei filmviewers in patria e non solo, di fronte a un pubblico occidentale tendenzialmente vecchio e poco vitale.
Ed è proprio al pubblico e alle sue scelte orgogliose e sbarazzine che quell’ “I love you” sembra essere rivolto, quel popolo di giovani che sa identificarsi sia nelle eroine ciniche e patinate del blockbuster cinese Tiny Times I di Guo Jingming (anche autore del libro bestseller omonimo) sia magari nei loser dokyun in cerca d’amore del giapponese Be My Baby di One Hitoshi. Ovviamente, è inevitabile per un Festival partito originariamente come finestra aperta su Hong Kong che l’atto d’amore sia anche un ribadire che Hong Kong avrà sempre un posto speciale nel cuore degli organizzatori e dunque nella programmazione del festival. Quest’anno, oltre alla consueta presenza di tutto rispetto di premières europee e internazionali targate HK (tra le quali l’atteso ma ahimé deludente ritorno al lungometraggio di Fruit Chan), c’è stata la proposta dei cortometraggi Fresh Wave, presenza consolidata ormai da diversi anni al FEFF, un piccolo action focus su Dante Lam, presente con due film, più un film restaurato del 1960, Nobody’s Child di Bu Wancang con una giovanissima e sempre bravissima Josephine Tsiao.
Fra gli altri quattro titoli della sezione restaurata spiccavano sicuramente Good Morning del giapponese Ozu Yasujiro e Manila in the Claws of Light di Lino Brocka, unico film filippino ad essere stato incluso negli elenchi dei cento film migliori di tutti i tempi. Un’altra piccola sezione è stata quest’anno dedicata ai documentari, fra i quali Boundless di Ferris Lin, che segue Johnny To nella lavorazione di alcuni film, scandagliando il suo rapporto sia con la Cina che con Hong Kong.
Tra i film presenti nella competition, il Giappone costituiva la presenza più massiccia e anche più variegata, con undici film che spaziavano dal noir all’action oltre alla commedia nelle sue varie sfaccettature e anche un’incursione nello psycho-horror-thriller con Bilocation di Mari Asato; un genere, quello horror, di cui si sente tanto la mancanza al FEFF (c’era una volta l’Horror Day…) rispetto alle troppe commedie che a volte rischiano di appiattire la fruizione, nel senso che il grosso del pubblico del FEFF ormai ho il sospetto che si aspetti a occhi chiusi di vedere sempre una commedia.
Ed è stato proprio questo, a mio avviso, uno dei punti spinosi di questa edizione: la giusta fruibilità dei film proposti. Rispetto al passato, non solo il pubblico è aumentato in maniera esponenziale, ma anche le proposte parallele degli organizzatori, per cui insieme ai film si sono susseguiti workshops e attività di ogni tipo come possibili introduzioni all’Oriente. In altre zone della città, certo, ma cosa accade, però, se una di tali attività viene collocata nella hall del Teatro, proprio a fianco allo spazio riservato alla fila degli accreditati White Tiger? Il corridoio fino all’anno scorso spazioso dove sostare tranquillamente a far la fila tra una chiacchiera e l’altra, quest’anno grazie a una partita di mahjong si è trasformato in un cunicolo-trappola per topi, tra i volontari del FEFF che invitavano a spostarsi (ma dove, se c’è il muro?) per far finire la partita agli iscritti al laboratorio, e allo stesso tempo far passare il pubblico in uscita, tra spintonate, vecchietti col bastone che ti pestavano i piedi, il caldo e alcuni disabili in carrozzella che cercavano di uscire da qualunque porta d'emergenza fosse disponibile rischiando di farsi male nella calca generale, file parallele che diventavano bolgia, si è rischiato spesso di svenire. Fino a qualche anno fa, alcuni film delle sezioni speciali venivano proiettati al Visionario, forse per permettere ai visitatori di avere più scelta o forse proprio per non far accalcare nessuno nella hall… in ogni caso, nel Teatro Giovanni Da Udine non c’era ombra di atmosfere da ressa (rissa?) e si poteva entrare a vedere un film senza nessun problema. Adesso invece sembra che ogni ingresso sia una prova di resistenza fisica, senza contare che a volte, di certo non per colpa degli organizzatori ma forse per la tendenza verso il superficiale del pubblico accresciuto degli ultimi anni, la visione di un film drammatico viene a volte accompagnata da risate prive di senso da una grossa fetta di pubblico, forse troppo assuefatta all’idea che FEFF sia sinonimo con commedia. Da cui mi spiego perché durante un film serio come il notevole e intenso Soul di Chung Mong-hong parecchie persone ridessero a presunte battute che solo loro leggevano tra le righe della storia nerissima raccontata dal regista.
Polemica a parte con il pubblico del Festival, con il quale mi trovo a volte in netto disaccordo, forse l’aumento massiccio di persone ad ogni proiezione, soprattutto quelle serali, richiederebbe degli spazi aggiuntivi, o magari delle repliche di alcuni film particolarmente attesi al Visionario, senza sconvolgere il palinsesto del cinema. Se, come ci auguriamo e come il festival meriterebbe, i visitatori del FEFF saranno sempre di più, di certo un cambiamento logistico o di qualche altro tipo si renderà necessario, per permettere a tutti di non perdere la gioia di vedere film, trasformandola in un incubo.
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