Sibel, una ragazza turca trasferitasi con la famiglia in Germania, pur di fuggire alle severe abitudini imposte dal padre chiede a Cahit, anche lui turco, di sposarla. Dopo un'iniziale ritrosia Cahit accetta. All’inizio i due fanno vita separata, ma a poco a poco Cahit finisce con l’innamorarsi di Sibel…
Sposa uno, sposa due, sposa tre.
La prima, di Tarantino, vuole morto Bill, ossia colui che l’ha resa vedova sulla soglia della chiesa.
La seconda, siriana, cerca un timbro che significa unione con lo sposo (che sta dall’altra parte del confine) ma anche abbandono della propria terra.
La terza, turca, cerca più che un amore un marito, per evadere da una realtà famigliare divenuta insostenibile.
Più che l’ambientazione della storia, una prima parte tedesca e una seconda turca (senza che si noti molta differenza tra Berlino e Istanbul), a contare sono i due protagonisti Sibel (Sibel Kekilli) e Cahit (Birol Unel) e i personaggi ai quali danno vita, due loser di appartenenza classica che scopriranno sulla propria pelle come sia difficile mantenere le distanze imposte da un matrimonio di puro interesse (do ut des, tu mi liberi, io ti aiuto a pagare l’affitto).
L’aria che si respira in La sposa turca tende per lunghi tratti (vedi i tentativi di suicidio) al maledetto (anche se si è ben lontani che so, da Il cattivo tenente), ma un po’ per la distanza che il trentunenne Fatih Akin adotta, un po’ per la mediazione esercitata da una piccola orchestra che canta su di un molo e che spezza a intervalli regolari la storia (orchestra che chiude il film inchinandosi al pubblico al di qua dello schermo), sottolineandone la dimensione artificiale, lo spettacolo, pur somigliando a un mélo dal DNA fassbinderiano, alla fine lascia un po’ delusi.
Comunque sia Orso d’Oro al 54mo Festival del Cinema di Berlino.
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