Da inizio anno su RaiUno, il giovedì in prima serata, è tornato con la nona stagione l’inossidabile Don Matteo, interpretato da Terence Hill, che può essere considerato una delle colonne della fiction poliziesca della rete ammiraglia assieme a Il commissario Montalbano.
Ma a differenza di quest’ultima, che si posiziona, pur nel suo successo, in una fascia medio-alta di produzione, la serie col prete-detective appartiene a quell’offerta nazional-popolare in grado di accontentare i palati meno raffinati. Nella sua inconfondibile commistione tra giallo e commedia all’italiana (il maresciallo Cecchini e i due capitani dei carabinieri che si sono succeduti nel tempo – per non parlare del sacrestano e della perpetua – hanno il compito di coprire questo versante della nararzione), Don Matteo offre, in maniera talvolta assai semplicistica, un’immagine rassicurante del nostro paese di cui pare che il nostro pubblico abbia molto bisogno: d’altro canto i quasi 200 episodi distribuiti in 13 anni e finora 8 serie stanno lì a dimostrare che la formula non pare conoscere usura.
Poco importava che per ore e ore l’atletico pretone (è solo un caso che, in anni passati, Terence Hill abbia interpretato anche don Camillo?) andasse su e giù per Gubbio con quella bicicletta che chi abbia un minimo conoscenza dell’altimetria della cittadina umbra sa essere un mezzo di locomozione davvero poco utilizzato; non interessava granché il fatto che il comando di compagnia dei Carabinieri fosse posto, assai poco realisticamente, nel Palazzo Pretorio, attuale sede del Comune, di fronte al Palazzo dei Consoli per un bello spot turistico; non faceva sorridere la voluta linearità d’intreccio degli episodi che devono garantire, in meno di un’ora, dosi omeopatiche di giallo, di commedia e di varia umanità; né infine scandalizzava l’insostenibile leggerezza new age di don Matteo la cui austera divisa nera sacerdotale si scoloriva in un’ecumenica empatia con il Creato a metà strada tra l’iconografia tradizionale e dolciastra del Poverello d’Assisi e il santino mediatico di Papa Francesco.
E anche quest’anno dunque somma e leggiadra gradevolezza delle storie e infinita leggerezza del sostrato teologico caratterizzano le incursioni poliziesche del nostro prete mentre sia affacciano nuovi personaggi e interpreti che hanno il non difficile compito di consolidare l’affetto del pubblico: infatti, oltre che su Nino Frassica (il maresciallo Cecchini) e Simone Montedoro (il capitano Tommasi), il successo della fiction si deve soprattutto al rassicurante profilo di Terence Hill: d’altra parte sarà ancora una volta un caso che l’attore sia transitato in questi ultimi anni, quasi col medesimo successo di pubblico, dagli Appennini alle Alpi, interpretando l’ispettore della Guardia Forestale Pietro nelle due serie di Un passo dal cielo?
Stavolta però le insondabili (o forse anche troppo comprensibili) alchimie produttive hanno richiesto lo spostamento del set da Gubbio a Spoleto, costringendo gli sceneggiatori a una sutura narrativa molto alla buona con le serie precedenti. Infatti capitano e maresciallo, contemporaneamente (!), nell’ambito di una non meglio precisata razionalizzazione e unificazione dei presidi dei carabinieri, vengono trasferiti a Spoleto, pur conservando la competenza territoriale nei dintorni di Gubbio: verrebbe da ridere, ma si sa, gli italiani – popolo di navigatori – la geografia non la conoscono bene, figuriamoci quella di una regione appartata come l’Umbria.
E don Matteo? Naturalmente interviene il vescovo non si sa di quale città – e anche qui con le geografia ecclesiastica cadiamo malino – che, cedendo anche alle richieste epistolari del maresciallo Cecchini (!) trasferisce il suo caro parroco – con tutta la sua corte dei miracoli – a Spoleto: come se l’intera Umbria corrispondesse a una sola diocesi.
E naturalmente il comando di compagnia viene piazzato in modo incongruo, ma strategico dal punto di vista dell’immediata riconoscibilità turistica del prodotto, a fianco del Duomo dell’antica capitale del Ducato.
E, per finire con i peccati che gridano vendetta al cospetto delle divinità televisive, nel prologo a ogni coppia di episodi capitano e maresciallo con la caramellosa pargola, rispettivamente figlia del primo e nipote del secondo, se ne vanno in giro per l’Umbria a magnificare piazze, chiese e monumenti celebri in attesa dell’entrata in scena del buon prete.
Qualcuno forse dirà che siamo troppo impietosi, che un programma che miete continui successi all’Auditel meriterebbe ben altra considerazione, che la critica televisiva talvolta ostenta un fastidioso snobismo nei confronti dei prodotti più popolari.
Ebbene l’ipoteco critico del vostro critico sbaglierebbe bersaglio: abbiamo trascorso almeno tre decenni a lottare per dare piena dignità a quei generi e a quei prodotti chiaramente commerciali, ma che potrebbero lo stesso vantare una piena dignità e una sicura artigianalità (nel senso creativo del termine) di progettazione e di esecuzione. Ma basterebbe confrontare il nostro Don Matteo con una qualsiasi serie di successo anglo-americana (ma persino francese o tedesca) per capire come, davvero, non ci siamo.
Prendete l’imprevedibilità geniale narrativa di Lost o l’impietosa analisi sociale di Desperate Housewives o anche il buon vecchio usato sicuro de L’ispettore Derrick o la fumettistica ma innocua fracassoneria (perdonate il neologismo!) di Squadra Speciale Cobra 11: capirete subito quanta strada c’è ancora da fare.
Analizzate la maschera del maresciallo Cecchini, che sembra uscito da un improbabile sequel dei Pane, amore e… di De Sica padre e più vicino ai marescialli delle barzellette che a quelli della realtà, e confrontatela con il feroce ritratto di una Bree Van de Kamp, sempre più casalinga e sempre più disperata, una della porta accanto, una di noi: un autentico abisso.
D’altra parte un filosofo – Simone Regazzoni – negli ultimi anni ha dato alle stampe una Filosofia del Dr. House e un altro saggio su Lost: quando qualche altro accademico – Regazzoni insegna alla Cattolica a Milano – metterà la faccia su una improbabilissima Filosofia di don Matteo, ne riparleremo.
Nel frattempo, come giudicare un prodotto spacciato per buon vino d’annata e che invece scivola giù fresco, innocente e dimenticabile come un bicchier d’acqua?
Voto: n.g.
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