«The scent and smoke and seat of a casino are nauseating at three in the morning. Then the soul-erosion produced by gambling - a compost of greed and fear and nervous tension - becomes unbearable and the sense awake and revolt, from it. James Bond suddenly knew that he was tired». Casino Royale, Ian Fleming - pubblicato in Inghilterra per la prima volta in 4.750 copie da Jonathan Cape.

     

Quando lessi per la prima volta Casino Royale non mi piacque granché. Ero giovane, le mie letture spionistiche erano soprattutto le avventure ritmatissime di Nick Carter e OSS117 pubblicate su Segretissimo e Bond lo conoscevo solo nella versione cinematografica. Riprenderlo in mano oggi (benché mi sia capitato di rileggerlo una ventina d’anni fa) in un momento in cui l’immagine stessa del Bond cinematografica è cambiata tornando all’origine letteraria, mi ha suggerito nuove considerazioni. Prima di tutto che 007 al cinema è stato sino a oggi essenzialmente un personaggio “diverso” da quello concepito da Fleming nei romanzi. C’era qualcosa sì del modello, ma l’interpretazione che ne è stata divulgata risulta se non deformata almeno adattata al mezzo cinematografico - che impone ritmi e azioni che risultano a volte ridondanti nei romanzi - e poi si è formata nell’immaginario degli anni ’60. Di seguito la seconda riflessione. Un romanzo va letto considerando l’epoca e il contesto in cui è stato scritto. Forse per l’adolescente che ero, con la mente piena di suggestioni visive di quei tempi, erano dettagli che tendevano a sfuggire. Oggi che si celebrano i cinquant’anni della carriera cinematografica di 007 e i sessanta dalla sua nascita letteraria è opportuno riprendere quelle pagine con qualche nozione in più. Di fatto Fleming era un ottimo narratore, forse non sempre nella stessa misura, ma in questo caso l’esordio fu geniale. Sebbene un amico gli consigliasse di pubblicare questo suo thriller con uno pseudonimo, aveva centrato il bersaglio.

Il personaggio, l’atmosfera, i dettagli e persino la trama con quell’anticlimax che uccide Le Chiffre a cinquanta pagine dalla fine sono una miscela perfetta almeno quanto quella del Vesper, il mitico cocktail che diventerà un tormentone al cinema. Bond è, sulla pagina, un eroe cupo, già consapevole che i buoni e i cattivi si possono scambiare i ruoli, come si evince dal dialogo nel capitolo 20, La natura del Male, tra 007 e Mathis. «Quando si è giovani sembra facile distinguere il bene dal male. Ma a mano a mano che gli anni passano la differenza si fa sempre più difficile». Significativa considerazione che solo in Quantum of Solace è stata ripresa nel corso di una totale rivisitazione del personaggio e del tono delle sue avventure. Ma nel romanzo, al termine “apparente” della missione, Bond è pronto a lasciare lo sporco mestiere di spia per amore (se pure è possibile credere nell’amore) e al tempo stesso così disincantato da sapere di poter battere Le Chiffre, di resistere alla tortura più umiliante e chiudere il romanzo con la più cinica delle battute («Perché è morta, quella puttana»).

         

Eroe noir, umano, ma anche soldato della Guerra Fredda. La spia che Ian Fleming avrebbe voluto essere. In effetti l’autore scozzese nello spionaggio aveva lavorato davvero, tentando pure di sbancare i nazisti che andavano a giocare al casinò dell’Estoril in Portogallo. Di spie e sistemi d’intelligence ne sapeva sin troppo. Per questo lo mandavano a istruire gli americani ma non lo lasciavano partecipare alle missioni vere. Se fosse stato catturato aveva troppo da riferire. Così a 43 anni, nel pieno della Guerra Fredda e alle soglie di un matrimonio che in qualche modo rifuggiva si richiuse nella sua villa in Giamaica e, imponendosi una routine di lavoro rigorosissima, scrisse la prima di una serie di avventure che lo avrebbero consegnato alla leggenda.

Casinò Royale non è un romanzo lento, come l’idea che sia incentrato su una partita a carte potrebbe lasciar pensare. La narrazione entra subito nel vivo, Bond è presentato al culmine di una notte al casinò e ci appare subito per quello che è. Un guerriero. Stanco, stressato ma combattivo. Poi conosciamo passo passo i dettagli della missione. Entriamo in un mondo glamour ma tinto di grigio come dovevano essere gli anni della Guerra Fredda visti negli uffici di Regent’s Park proprio nel periodo in cui l’Inghilterra consumava, ancora ignara, uno degli smacchi più infamanti della sua storia spionistica: l’affare Philby, destinato a esplodere dieci anni dopo ma già in atto dal 1936.

Di tutto ciò Fleming sembra aver coscienza ma solo alla periferia della sua immaginazione. Il pericolo rosso esiste ma la sua attenzione si concentra più sui personaggi (straordinari) della sua vicenda. Le Chiffre non è il classico agente dei servizi segreti dell’Est. È in qualche modo il viso oscuro di Bond. Ama le carte, le donne, non vuol perdere e sa essere feroce. Si gioca tutto per recuperare una posizione persa agli occhi della sua organizzazione. Non sa accettare la sconfitta e le prova tutte per riportare la bilancia in pari. Il caso gli volta le spalle. Mette Bond sulla sua strada e con lui lo “spettro” della sconfitta. La SMERSH (organizzazione reale che dal solo nome “Morte alle Spie” si qualifica) lo punisce.

Daniel Craig in "Casino Royale"
Daniel Craig in "Casino Royale"
Ma la vicenda non finisce qui perché Casinò Royale non è solo un thriller. È, più o meno consciamente, il passo d’inizio di un cammino che deve portare lontano il suo protagonista. Senza Vesper, senza quelle sequenze prive d’azione ma cariche di umanità che si concludono con l’apparizione dell’uomo con la benda nera la storia resterebbe incompleta. In questo contesto i pochi capitoli dedicati al gioco di carte non appaiono lenti. La spiegazione del gioco è fluida, inframmezzata dall’azione e colpi di scena. Valga per tutti il corso con il bastone che cerca di uccidere Bond al culmine della partita.

Poi ci sono elementi secondari. La coppia che sorveglia Bond sin dal suo arrivo, i killer bulgari che compiono un maldestro attentato. Qualcosa ci suggerisce subito ch ei conti non tornano, che la partita con Le Chiffre si gioca con carte truccate. L’azione poi, per quanto rapida è descritta con realismo, dinamicità. l’inseguimento in auto durante il rapimento di Vesper è narrato con tecnica da manuale. È, in fin dei conti, un romanzo del 1952, le iperboli d’azione che il cinema ha trasposto nelle pagine della narrativa odierna, sono ancora lontane. Pensate ai film di quell’epoca, a quei western dove a un colpo di pistola gli indiani cadevano a grappoli, alle scazzottate inverosimili dei noir.

Fleming riusciva a mettere invece un realismo crudo nella descrizione della violenza e del sesso condensandolo in poche righe, scegliendo con cura parole e frasi. Un romanzo di 170 pagine che non ha davvero bisogno di allungarsi come sin troppe volte capita oggi se si vuol essere pubblicati in libreria. Da rileggere senz’altro e giudicare all’interno del contesto della sua epoca e dell’opera generale di Fleming. Per imparare e, sì, anche divertirsi.

«You know the name, you konw the number»... credo che per comprendere e apprezzare appieno la mitologia del James Bond letterario e cinematografico sia fondamentale leggere Il dottor No. Licenza di uccidere. Ovviamente in lingua originale.

Ian Fleming era un po’ la controfigura del suo eroe. Viaggiatore, bon vivant e uomo d’azione. Ma anche di pensiero, spia e intellettuale. Nonché ottimo scrittore. E riprendere Doctor No in lingua originale ci restituisce tutto il piacere della sua prosa schietta, ma non sciatta, variegata, documentata ma non pedante. Basti un piccolo ma importante particolare. In questo come in altri romanzi tutti i personaggi di colore o di origine caraibica si esprimono in un patois che ricostruisce una lingua originale, foneticamente riportata sulla pagina in un inglese bizzarro ma in sé già efficacissimo a ricostruire un ambiente, un cultura. Operazione purtroppo persa completamente nella traduzione nostrana. Ma questo è solo un dettaglio.

Fleming si dimostra con questo romanzo un abilissimo narratore. Riesce a creare un equilibrio tra atmosfera, psicologia dei personaggi e azione che raramente ritroveremo anche in altri suoi romanzi. È forse la storia che amo di più come autore di spy story io stesso. Ci sono tutti gli elementi che in futuro verranno ripresi dal cinema eppure è un libro diverso con sfumature più nere di quanto poi sia apparso al cinema. Bond è, nella continuity dei romanzi, reduce dall’avvelenamento di cui è stato vittima in Dalla Russia con amore. È un uomo d’azione e questo già lo sapevamo, ma raramente l’inattività lo ha reso nervoso, vulnerabile. Forse la sua riserva di coraggio si è esaurita come dice sir Molony psichiatra del Servizio. M gli affida quindi un incarico apparentemente di tutto riposo ma non prima di averlo pesantemente redarguito e costretto a cambiare arma come se l’esito dell’ultimo scontro con Rosa Kleb fosse colpa di una sua scarsa capacità professionale.

Seguire le tracce del collega Strangways che tutti pensano essere fuggito con la segretaria, in Giamaica, appare a Bond più una punizione che un nuovo incarico per la sezione doppio 0 dalla quale rischia di essere espulso... pena il ritorno ai soliti incarichi investigativi. Eppure sin dal principio il lettore ha compreso che sulla Giamaica incombe un mistero che evoca quelli dei romanzi di Sax Rohmer creatore del diabolico dottor Fu Manchu.

Strangways è stato assassinato e tutto gira attorno a un’isola misteriosa, governata da un cinese che nessuno ha mai visto. E poi s’intrecciano trovate che stuzzicano la fantasia, e gettano un alone di esotico mistero sull’indagine. Gli afrocinesi, i Chigroes dell’originale, sono forse una delle trovate più accattivanti. Fleming gioca di fioretto evitando un eccesso di azione e violenza. Ma forse il coraggio di Bond è davvero esaurito... ne abbiamo un’avvisaglia nell’episodio del centopiedi e scopriamo che il vero fulcro del romanzo è proprio il pericolo che l’inossidabile 007 abbia perso la sua grinta. Il capitolo (perché c’è una scelta oculata di titoli per ogni frammento narrativo) “The Long Scream” in cui Bond deve affrontare un vero e proprio percorso di guerra disseminato di trappole e orrori per la mente e per il corpo, resta un esempio insuperato.

Così le macchinazioni spionistiche del dottor No sfumano rispetto al film ma il lettore resta affascinato dall’ambiente e dai suoi personaggi. Bond duro e feroce all’occorrenza cerca di allontanare Honey dal pericolo, affronta paura e dolore per salvarla dalla minaccia dei granchi. Quanto al dottor No risulta uno dei cattivi meglio tratteggiati dell’intera saga. Uomo dal cuore a destra, figlio di un pastore metodista tedesco e di una ragazza cinese di buona famiglia, cassiere nella guerra delle Tong nell’America del’anteguerra.

Documentazione, fantasia e abilità narrativa conferiscono a Fleming uno stato di grazia nella stesura di questo romanzo che lessi per la prima volta a 14 anni e che, ancora oggi resta una delle migliori spy story mai lette.