In Rouge di Stanley Kwan, un affascinante spettro vaga per le strade di Hong Kong: cinquant'anni dopo il proprio suicidio, la prostituta Fleur (Anita Mui) torna sulla terra per ritrovare il suo amante (Leslie Cheung), con cui avrebbe dovuto incontrarsi all’inferno una volta morta. Per riuscire a scovarlo, si fa aiutare da una coppia di giornalisti, che coglie l’occasione per riflettere sul proprio rapporto.
Siamo nel 1987, e il fantasma di un amore romantico vissuto per sei mesi nel 1934 in vita, e forse anche oltre la morte, non basta per ingannare lo squallore del presente, fatto di una Hong Kong città dell’oblio, una città in cui il passato cede il passo all’ennesimo centro commerciale (in questo caso lo Shopping Arcade), e dove il prosaico si rivela nella sua più vera nudità. L’amante di Fleur è infatti ancora vivo: non ha mai avuto il coraggio di suicidarsi insieme a lei, e ora fa la comparsa in film di fantasmi di basso rango. A Fleur non rimarrà altro che andarsene scomparendo nel buio, dopo aver restituito al suo antico amante la scatola di rossetto - rouge, appunto - che aveva ricevuto da lui in pegno del suo amore.
Ed è il rossetto la vera chiave di lettura del film, opera di grande perfezione formale e di emozioni rétro, con rarefatte atmosfere da mélo a cui il volto elegante di Anita Mui imprime un fascino irresistibile. Il rossetto diventa infatti simbolo dell’evanescenza dell’amore, ma soprattutto di Hong Kong, città di neon e vetri dove le esistenze scompaiono per lasciar spazio ad altro, come polvere spazzata via, o vernice che non lascia traccia.
Nel suo film più famoso (e forse migliore), Kwan tesse la parabola malinconica e disillusa di un amore interrotto dalle mancate promesse, mostrando una città senza storia, continua ombra di se stessa. Come un fiore trasparente che non appassisce mai ma semplicemente svanisce nell’oscurità della notte. Superbo, regale, d’altri tempi.
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