Mona sta per lasciare il villaggio natio di Majdal Shams posto sulle Alture del Golan, territorio che dopo l’occupazione del 1967 ricade sotto la giurisdizione dello stato di Israele. Mona, che sta per sposare Tallel, un noto personaggio della televisione siriana, sa benissimo che una volta varcato il confine con la Siria le sarà impossibile tornare indietro per via della situazione politica tra i due stati…
Di no man's land è pieno il mondo, di quelle zone cioè che poste come sono al confine di due stati, ognuno dei quali rivendica le proprie ragioni per guardare in cagnesco l’altro, finiscono con il non appartenere a nessuno al pari di chi vi finisce dentro.
In tali zone vi incappano combattenti finiti su una mina (No man’s land) ma anche una sposa, siriana del Golan diretta con indosso l’abito bianco verso la Siria dove l’aspetta il futuro marito; da una parte ciò che sta per lasciare, gli affetti, la famiglia, dall’altra ciò che la attende, un’altra terra e un marito conosciuto solo per lettera (e quindi sconosciuto…).
Ma per colpa di un timbro che va e viene, che appare e scompare a colpi di “bianchetto” e per via di un funzionario siriano assai ligio al dovere, l’unione tra marito e moglie finisce col rimanere grottescamente sospesa in un limbo fatto di attese infinite, spezzate soltanto dai dialoghi via megafono e da fugaci occhiate tramite binocoli, il che ha portato giustamente alcuni a ravvisare nella situazione così creatasi un evento degno di un Beckett mediorientale.
A Eran Riklis, regista inglese di origine siriana, va riconosciuto il merito di sapere che un racconto del genere, con al centro due popoli così vicini ma così lontani, ha il pregio non soltanto di far riflettere sulle divisioni che lacerano costantemente larghe fette del mondo, ma ha anche quello di raccontarsi da solo senza troppi sforzi, così che non rimane altro da fare che accompagnarlo semplicemente facendo ricorso a una regia quanto mai semplice e lontana da ogni manierismo.
Inevitabile il confronto con Private, passato in sala l’inverno appena trascorso, un’altra storia calata nel medio-oriente lacerato, sempre con al centro dei confini, mentali ancor prima che geografici, che al pari di questo mostrava, se possibile in modo ancor più devastante, cosa voglia dire una convivenza impossibile.
Ma se Private sposava in pieno il registro drammatico, La sposa Siriana sceglie decisamente il registro del grottesco e dell’assurdo, preferendo sciogliere il finale di storia con una sferzata di ottimismo non tanto sulle possibilità di pace tra i due popoli, quanto piuttosto nei riguardi della posizione femminile, con Mona, la sposa, e Amal, la sorella maggiore, che rotti gli indugi prendono ognuna la propria strada, dimostrando alle burocrazie sparse al di qua e al di là dei confini cosa significa prendere una decisione in prima persona piuttosto che lasciare che siano gli altri a decidere.
Stavolta le polemiche che accompagnarono Private relativamente al doppiaggio (i palestinesi erano doppiati mentre i soldati israeliani no) non hanno ragione di essere, visto che il film è in versione originale (con i sottotitoli) così che ognuno parla nella sua lingua madre.
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