Erano anni che aspettavo di leggere questo libro. Non esattamente “questo” romanzo, ma uno simile che sapesse ricreare l’entusiasmo delle mie prime letture spionistiche, di Ian Fleming e poi del suo unico vero apocrifo all’altezza dell’originale, Il colonnello Sun (1968) di Kingsley Amis che preferì firmarsi Robert Markham.
Di apocrifi bondiani poi ce ne sono stati molto, quelli di John Gardner, di Christopher Wood, dell’amico Raymond Benson (tra i migliori) ma nessuno all’altezza della serie di Fleming o del romanzo di Amis. Negli ultimi anni ho provato cocenti delusioni sia per la snobistica e quasi risibile rilettura di Sebastian Faulks sia per la troppo lunga e, per me, fuori bersaglio sortita di Jeffrey Deaver. Con qualche titubanza ho quindi acquistato Solo di William Boyd, autore noto per la sua conoscenza della situazione africana, come testimoniano A Good Man in Africa (1981) e Come neve al sole (An Ice Cream War, 1982) tra i tanti titoli.
Sorpresa, sorpresa! Un romanzo da leggere e finire nello spazio di due pomeriggi...
Siamo nel 1969 e James Bond (stando ai necrologi riportati in Si vive solo due volte) è nato nel 1924. Festeggia quindi (da solo, con un pizzico di malinconia e con qualche pensiero cupo dovuto all’ineluttabile trascorrere del tempo) il suo quarantaquattresimo compleanno. Ha però l’occasione di conoscere una bella attrice che lo corteggia a distanza. Forse per abitudine Bond quasi teme una “trappola al miele” così comune nelle meccaniche dello spionaggio della Guerra fredda. Ma, chiarito l’equivoco, viene subito risucchiato in una missione nuova di zecca.
M lo manda nello Zanzarim, paese africano diviso da una guerra civile che tutti vogliono veder terminare per poter mettere le mani sulle ricchezze del paese. E qui Boyd gioca le sue carte migliori perché, dopo un incipit che recupera felicemente tutti i canoni della narrativa di Fleming, proietta Bond in un mondo che ha strette parentele con la cronaca internazionale dei tempi ma anche con gli universi narrativi di Maugham e di Greene.
Espatriato in terra africana, Bond è apparente incaricato di mettere in pratica la famosa “licenza doppio 0” ma si troverà invischiato in un garbuglio di agenti doppi, dittatori, mercenari ferocissimi (non può mancare l’arcinemico con caratteristiche mostruose nei panni del rhodesiano Jakobus Breed. Guardacaso con le iniziali J.B., come a suggerire un oscuro gioco di specchi tra i due personaggi), belle agenti dalla pelle scura, giornalisti di varia tendenza. Lasciato per morto al culmine della conclusione tagica del conflitto, Bond rientra in Inghilterra. Apparentemente missione compiuta ma... ci sono diversi conti da saldare e, non per la prima volta, 007 decide di muoversi “da solo”.
Mette in atto dunque una serie di ben descritti sotterfugi e segue i suoi nemici a Washington. Qui incontrerà nientemeno che il nipote di Felix Leiter e... una nuova missione.
Vi lascio al piacere della lettura senza spoilerare. Mi preme di più elogiare l’abilità di Boyd che con umiltà recepisce da Fleming i suoi tratti migliori, ripropone la psicologia “noir” del Bond originale e vi innesta elementi suoi senza discrepanze. E pure in un numero di pagine contenuto, evitando l’ormai imperante necessità di scrivere tomi da 500 pagine, molto lontani dai romanzi originali che, invece, erano agili e privi di lungaggini.
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