tutti coloro che non si rassegnano a considerare del tutto perfettamente ricostruita la torbida era della strategia della tensione. Vi sono, certo, alcune ingenuità che affondano radici in ciò che all'epoca sapevamo- o credevamo di sapere- delle Brigate Rosse e affini: una certa aura romantica che accompagna i militanti della lotta armata- e che allora in molti riconoscevano ai brigatisti- è stata definitivamente cancellata da migliaia di pagine di verbali processuali. E non siamo più disposti a condividere l'idea che lo Stato- o la parte deviata di esso- fosse in grado di agire come una spietata macchina da guerra, capace di travolgere ogni minimo ostacolo si frapponesse ai turpi disegni dei manovratori (dobbiamo a Zandel anche un'intuizione letteraria sul Grande Vecchio) e, soprattutto, di esercitare un così capillare e organizzatissimo controllo sul territorio. Grazie ai processi abbiamo imparato che nella lotta al terrorismo si mescolarono ardimento, lealtà, tradimento e anche una buona dose di cialtroneria. E questo Diego Zandel non poteva immaginarlo, nel 1981. Ma è proprio in questo aderire anima e corpo allo spirito del tempo che sta il pregio del romanzo: certi libri vanno scritti al tempo giusto, ci si deve mettere in gioco, si deve essere disposti a peccare di imperfezione. Un'ultima notazione per le figure del giovane protagonista e del suo mentore, il colonnello Dolcich. Sono entrambi esuli istriani. Hanno conosciuto la durezza, ma anche la solidarietà, del campo profughi. Le loro sono voci dell'esodo coatto. Lanciano lampi strazianti sulla tragedia dell'Istria. Ecco un altro tema dimenticato, al tempo in cui uscì il romanzo, che Zandel, protagonista in prima persona di quella diaspora, mette al centro della sua narrazione. Anche in questo, precursore e per giunta originale precursore: perché nel “Massacro”, come del resto nelle sue opere successive e più mature, il rimando all'esilio non ha mai, per Zandel, i connotati di quell'astiosa polemica tutta ideologica che, negli anni, avrebbe nuociuto non poco alle sue vittime. I toni con i quali Raul e Dolcich rievocano il comune passato e le profonde, inestirpabili radici che li legano, hanno il potere di colpire il lettore più a fondo di qualunque proclama. Qui la scrittura si distacca dal genere, da qualunque genere, e si fa coro elegiaco dei vinti dalla Storia. Vinti, ma non domi. Al punto che la Storia, con la sua cieca insensibilità di ieri e di oggi, degrada a mero scenario delle passioni umane. E di colpo quell'agitarsi di petardi e quel complottare di sedicenti rivoluzionari è come se perdesse d'interesse davanti a ciò che veramente conta: il cuore degli uomini e delle donne, da qualunque parte siano schierati.