«Signorina, prego, può accomodarsi. Il dottor Masotti la sta aspettando».

Vacillò: fu sul punto di mandare tutto in merda, assalita com’era da un incubo improvviso di bisturi, plasma, elettrocardiogrammi e lampade scialitiche. Pensò di fuggire a gambe levate, ma disse: «Sì, grazie», e la seguì.

Il chirurgo era lindo come una pera, elegante e cordiale, un po’ sovrappeso.

Seguirono due minuti sui rischi chirurgici, sulla volontà e la convinzione di andare fino in fondo e una ventina di prosopopea sulle tecniche e le protesi all’avanguardia e sui risultati.

Mirella si convinse.

Il dottor Masotti era tutto un sorriso.

Concordarono una quarta misura.

«Dottore, posso pagare a rate?»

«No, non è possibile. Mi dispiace».

Uscì dalla clinica in preda a quello che credeva essere il piano più basso di un grande edificio chiamato sconforto. Un palazzo che nessuno conosce fino in fondo.

Squillò il cellulare. Era sua madre.

«Bebè è morto».

E in un attimo fu nei sotterranei.

L’unica maniera di risalire era gettarsi fra le braccia di Dio.

* * *

Di nuovo al bar, il giorno dopo la tempesta. L’alba successiva alla dissoluzione del suo piccolo impero. Un castello di carte da gioco che Santino era riuscito a custodire in una stanza sigillata.

Mirella aveva spalancato le finestre. E il vento era entrato, con tutta la sua forza distruttiva.

Ordinò un caffè.

«Senza grappa, per favore. Ho bruciori di stomaco, puttana Eva».

Prima era inattaccabile. Nessuno conosceva i suoi movimenti, a parte i Beccamorti. Forse il delitto perfetto. Chi s’incula quattro, cinque, dieci, venti vecchietti spirati in un reparto di geriatria? È l’ordine naturale delle cose. È la normalità. Si nasce e si muore in ospedale, perlopiù: è il santuario della vita e della morte e, in quanto sacro, inviolabile.

Nella tazzina gli parve d’avere brodo, e pure insipido, senza niente che potesse dargli un po’ di colore, senza manco un po’ di sambuca.

Vide il suo volto riflesso negli specchi che moltiplicavano gli scaffali di liquori davanti a lui, riproducendolo in frattali di angoscia. I suoi proverbiali baffetti stavano per perdersi nella barba incolta, aveva un accenno di occhiaie.

Si sentiva un uomo di merda.

Che fare?

Abbandonare la nave. Prendere l’ultima scialuppa utile e ’fanculo il Titanic e tutti i marinai. Vendersi la macchina, comprarsi una Panda usata, saldare gli ultimi debiti. Mandare a quel paese l’ex moglie e suo figlio. Pagarsi con la tredicesima un buon analista, magari. Poi andarsene, tornare a casa. E per casa intendeva badare a quello che gli rimaneva della sua famiglia: suo padre e un fratello più testa di cazzo di lui.

Boh.

Certo era che doveva uscire da quella storia.

Percorse il lungo corridoio fino in fondo. Arrivò davanti l’ascensore. Le porte si spalancarono. Lesse: PORTATA MASSIMA QUATTRO PERSONE. Troppo poche per lui e per tutti i cadaveri che si portava sul groppone. Deviò per le scale, appesantito dai sensi di colpa.

Primo piano: oculistica, otorino, chirurgia maxillofacciale e cappella.

Quest’ultima, in dieci anni di lavoro là dentro, l’aveva vista solo dall’esterno.

Dentro c’erano tre vecchie vestite di scuro che riconobbe come parenti di suoi pazienti in reparto. Si sentiva già stanco e prese posto. Venne sorpreso dalla messa che iniziò come un fulmine a ciel sereno. Non riuscì a staccarsi da quel posto. La sua militanza di chierichetto gli imponeva di rimanere fino alla benedizione finale.

Il cappellano, riconoscendolo, gli sorrise e attaccò con una serie di parole che risuonarono sorde nella sua scatola cranica imballata. Dopo la breve introduzione arrivò il consueto: «Preghiamo».

Ma sì, preghiamo, pensò, prego di cambiare vita. Basta coi debiti e le stronzate, Gesù mio, basta. Da domani cambio vita, giuro su Dio. Ah, sì è peccato. Chiedo perdono, Gesù bello, perdono e buona sorte. Amen. Sarò un uomo nuovo, giuro e spergiuro. Scusa. Sistemo un po’ di cose e torno da papà. Onora il padre e la madre, hai scritto. E farò così.

Per un attimo gli venne in mente l’immagine iconica di suo padre: un vecchietto gracile seduto su una sedia nel cortile davanti casa, tutto intento a mazzicare santi, a sgranare il rosario.

La messa intanto scivolò liscia per tutta la sua liturgia e Santino non si accorse che era quasi finita.