Se non “un idea di mondo” (il che in fin dei conti sarebbe inutile) almeno una ficcante “idea di thriller” lontana anni luce dai tecnicismi investigativi di “altre idee” di thriller.
L’ipnotista, del dato per disperso Lasse Hallström e invece in forma smagliante dopo il ritorno a casa, è puro, anzi purissimo, “ghiaccio bollente” che come termine sarà trito e ritrito (e pure quest’ultima è trita e ritrita…) ma perlomeno rende l’idea di come mettere in scena un thriller solidissimo srotolando all’interno del classicol “whodunit” temi forti che sembrano appartenere ad un cinema “altro” (e magari alto…) con un equilibrio e una perizia che lasciano di stucco.
In soldoni: se in superficie troneggia l’indagine, in profondità (ma neanche tanto…) è un fiorire spontaneo di personaggi lacerati, matrimoni in bilico, surrogati di maternità, solitudini che si tagliano a fette, e mentre l’indagine va avanti il fattore umano rimane il perno attorno al quale tutto ruota senza un minimo di cedimento al punto che la stessa tecnica, quella dell’ipnosi (a proposito: ma quanto tempo era che non si vedeva l’ipnosi al cinema?) è solo uno strumento (per lo più neanche infallibile ma al tempo stesso necessario…) al servizio della storia e non il contrario.
Alla fine ci ritroviamo tra il cervello e gli occhi un film estremamente avvolgente e fluido nel suo dolore liquido, così come liquido è il finale che consegna alla memoria una delle “rese” più emozionanti viste da parecchio tempo in qua, capace di gettare nuova luce su chi fino allora ha incarnato solo malvagità, un arrendersi (molto plastico e scandito dalle braccia lungo i fianchi a dispetto dello stesso istinto di sopravvivenza…) che mentre chiude il cerchio di un’indagine in fin dei conti neanche troppo difficile da chiudere, lascia qualcosa di non perfettamente espresso che continua ad interrogare.
Onestamente della trama ci interessa poco e questo poco è ciò che segue: delitto efferato e dislocato (un uomo ucciso in una palestra, il resto della famiglia a casa…).
Vederlo…
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