Esiste un genere particolare di film che si potrebbe chiamare tanto “d’assedio” quanto “di barricate”, ed indica una storia che veda alcuni personaggi costretti in un singolo luogo (non necessariamente “chiuso”) da un nemico che li circonda: le storie di questo genere non si focalizzano sul nemico esterno bensì sui problemi interni al gruppo di protagonisti.
Iniziamo il viaggio seguendo un filo conduttore che ci porta indietro di quasi cento anni.
Questa storia inizia nella Mesopotamia del 1917, in piena Prima guerra mondiale, dove presta servizio un giovanissimo ufficiale di cavalleria britannico di nome Philip MacDonald: le esperienze qui vissute regalano al diciassettenne un’idea per un romanzo. Finita la guerra, intrapresa la carriera di scrittore e riscosso successo con la sua opera prima (The Rasp, 1924, arrivato in Italia nel ’76 come Campana a morto, Il Giallo Mondadori n. 1431), MacDonald decide di usare quell’idea per un romanzo dal titolo semplice e lapidario: Patrol, “pattuglia”, pubblicato originariamente nel 1927 e inedito in Italia. (O almeno non esistono prove certe che sia mai stato pubblicato.)
Il romanzo si apre con la morte del capopattuglia di un manipolo di soldati britannici della Prima guerra mondiale che sta attraversando un territorio desertico della Mesopotamia. Visto che solo il defunto conosceva gli ordini ricevuti, la pattuglia decide di tornare fra le file dell’esercito: ma il deserto è insidioso e l’arrivo in un’oasi è considerato un dono divino. Al risveglio il giorno dopo, però, i cavalli sono scomparsi e i dieci soldati si ritrovano bloccati nell’oasi dal fuoco di cecchini nemici. Gli arabi li hanno circondati nottetempo e, sebbene non si vedano né si sentano, sono un nemico difficile da affrontare, soprattutto in forte inferiorità numerica. Inizia un lungo assedio che metterà a dura prova i soldati, costretti a rimanere assediati nell’oasi e a fare i conti con se stessi.
La storia piace - dodici ristampe in sette anni, prima dell’edizione economica e prima di diventare uno dei primi e più celebri Penguin Books - ed è subito opzionata per il cinema: nel 1929 esce su grande schermo Lost Patrol di Walter Summers, in cui il regista-sceneggiatore pare sia stato così fedele al testo da aver inserito dei flashback in cui i soldati protagonisti ricordano la loro vita in tempo di pace, com’è appunto nel romanzo. In seguito lo scrittore MacDonald lavorerà moltissimo per il cinema - sia vendendo i diritti dei propri romanzi sia scrivendo sceneggiature apposite - ma questo suo primo contatto con il mondo di celluloide è fallimentare: il film in pratica non lascia tracce. (Addirittura il blogger George Simmers, esperto di narrativa bellica, ventila l’ipotesi che la pellicola del film sia andata persa.)
In realtà l’oblio in cui è finito il film di Summers è anche dovuto al fatto che pochi anni dopo un mostro sacro come John Ford ripete l’operazione e dirige per la RKO The Lost Patrol (1934): sebbene le premesse siano identiche, stavolta è un successo inarrestabile. «È l’esaltazione dell’eroismo - scrive entusiastica “La Stampa” il 5 gennaio 1937, annunciando per il giorno dopo l’uscita in sala del film La pattuglia sperduta. - Un pugno di uomini sperduti nel deserto in lotta contro un nemico misterioso quanto il destino. Un ritmo drammatico, incalzante che non dà tregua fino alla fine della vicenda.»
Nell’ottobre del 1933 Ford ricrea la Mesopotamia del 1917 andando a girare fra il deserto dell’Arizona (nei pressi di Yuma) e Buttercup Dunes in California (dov’erano già state girate le prime versioni di grandi titoli come Le quattro piume, Il figlio dello sceicco e Beau Geste) con tutti i problemi del caso. Malgrado l’handicap di dover girare solo per poche ore al giorno, a causa del caldo insopportabile (comprese alcune insolazioni), Ford riesce a finire la pellicola in due settimane (dice lui, mentre altre fonti parlano di tre).
Il cast di attori è un team affiatato «con cui era meraviglioso lavorare», racconta in seguito Boris Karloff. Ford non stressa gli attori sul set e chiude gli occhi quando, finito di girare, molti partono alla volta della vicina Yuma a fare una visita alle cantinas locali. Il buon vecchio Boris è la star del gruppo e il suo personaggio, Sanders, gli permette di sfoggiare tutto il campionario di espressioni forti anche se troppo esagerate. E non è un giudizio dato con occhi moderni, perché già l’8 aprile 1934 il “New York Times” scrive tagliente che il film è eccezionalmente ben recitato «ad eccezione di Boris Karloff».
«Nel 1934, quando i lavori più personali di Ford passavano inosservati o erano insuccessi di pubblico, il “realismo” de La pattuglia sperduta affascinò la critica - racconta Tag Gallagher nel suo John Ford: the Man and his Films (1986). - Il “National Board of Review” lo annoverò fra i migliori dieci film dell’anno, il “New York Times” lo mise al sesto posto e la colonna sonora di Max Steiner vinse il premio Oscar.»
Ford riesce a creare alla perfezione il clima di forte instabilità che si crea all’interno della pattuglia assediata nell’oasi. Visto infatti che il gruppo è variopinto - c’è l’esaltato, il gentiluomo decaduto, lo scozzese, l’irlandese, il cockney - motivi perché la tensione cresca di livello non mancano. Il nemico è pressoché invisibile e quindi ancora più spaventoso: potrebbero esserci tre arabi come trecento o tremila nascosti fra le dune, e quest’incertezza distrugge il morale della pattuglia.
Ad esclusione del ruolo di Karloff - davvero troppo sopra le righe - ancora oggi il titolo di Ford è un film di culto che si lascia apprezzare in pieno.
Il clamore del successo di Lost Patrol spinge la macchina hollywoodiana a fare quello che fa da sempre: produrre remake. Nel 1939 arriva al cinema Bad Lands di Lew Landers. Lo sceneggiatore Clarence Upson Young prende il film di Ford e lo trasforma in un western.
Si abbandona quindi la Mesopotamia del 1917 e si va tutti nel deserto dell’Arizona del 1875. Qui un gruppo di dieci uomini guidati dallo sceriffo Bill Cummings (Robert Barrat) si sta lanciando alla caccia di Apache Jack, un rinnegato che si è macchiato di omicidio in paese. Il criminale conosce bene i luoghi e così fa addentrare la posse di Cummings nel deserto più terribile, finché i dieci uomini arrivano in un’oasi: non c’è acqua, bensì una vena di argento. Qualcuno della posse vorrebbe tornare di corsa a casa per ottenere il permesso di sfruttamento della miniera, ma lo sceriffo Cummings convince tutti a dormirci su: la mattina dopo i cavalli sono scomparsi e ad uno ad uno gli uomini finiscono vittima degli attacchi degli Apaches, invisibili ma rintanati nelle vicinanze.
Una curiosità. Nel ruolo di uno degli uomini ritroviamo lo stesso Douglas Walton che ha recitato anche ne La pattuglia sperduta di John Ford.
Se il film di Lew Landers è una fedele versione del romanzo di MacDonald virato in chiave western, è molto più sottile la vicinanza al tema di un film italiano di molto posteriore: La pattuglia sperduta (1954), opera prima di Piero Nelli.
Alla sua uscita nei cinema, il 30 luglio 1954, il film viene presentato con un’unica frase: «Un film neorealistico sul Risorgimento italiano». Passa per il nostro Paese praticamente di nascosto, e il massimo che viene detto della pellicola è che... è interpretata da attori non professionisti.
«Otto uomini del 18° Fanteria Aqui - recita la voce narrante all’inizio del film - nella fredda alba del 19 marzo 1849 si muovono da una cascina a nord del ponte di Bereguardo, sulla riva piemontese del Ticino, per compiere una perlustrazione lungo la linea del fronte e per stabilire il contatto con la divisione del tenente generale Ramorino alla cava: è la pattuglia del capitano Salviati.»
Girato nel 1952 in Piemonte, La pattuglia sperduta originariamente doveva intitolarsi Vecchio Regno. Si svolge nei primi giorni di marzo 1849 nell’imminenza della ripresa della guerra con l’Austria, quando cittadini d’ogni tipo - contadini, studenti, operai e anche borghesi - si arruolarono volontari nell’esercito sardo schierato sulla linea di armistizio del Ticino. Una pattuglia di questo esercito, composta di otto uomini (tre piemontesi: un capitano, un tenente e un sergente; e cinque provenienti da altre diverse regioni) escono in avanscoperta lungo il fiume, alla vigilia della famosa battaglia di Novara. Gli otto uomini finiscono però per trovarsi, in seguito agli avvenimenti del 20 marzo, ad essere tagliati fuori dal grosso del loro esercito e ad essere così in balìa del nemico sul territorio da esso occupato. Vagano nella pianura lombarda, tra la nebbia e le stoppie, ma non pensano minimamente ad abbandonare le armi o ad arrendersi: pensano solo a come potere essere d’aiuto all’esercito.
Sebbene la storia sia molto diversa dal romanzo di MacDonald o dal film di Ford, lo stesso è possibile trovare echi di entrambi. La nebbiosa pianura padana non ha nulla da invidiare ai deserti delle altre versioni, e sebbene in otto gli uomini protagonisti lo stesso simboleggiano un gruppo molto eterogeneo che reagisce in modo diverso allo stress della guerra ma lo stesso sente di far parte della stessa patria. Ad un certo punto la pattuglia si ritrova anche bloccata in uno stabile, ricreando - seppur in modo sommario - lo stato d’assedio che invece occupa gran parte della trama delle precedenti opere.
Questi sono solo alcuni dei film che si sono più o meno liberamente ispirati al tema della “pattuglia sperduta”, dimostrando che l’idea di un gruppo di uomini stretti in un unico spazio è non solo fertile dal punto di vista narrativo, ma anche ottima da quello produttivo: bastano quattro mura e una manciata di sabbia e la scenografia è completa!
Ma intanto dall’Unione Sovietica un regista esordiente sta per cambiare per sempre il genere di “cinema d’assedio”, che non sarà mai più lo stesso. Ne parleremo la settimana prossima.
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