Altro bel colpo. Ero rimasto interdetto. Danny invece sembrava aver ritrovato le parole e le scaricava come un torrente in piena. “Si era cacciato in un brutto giro. E’ per questo che ho raccolto l’arma. Speravo che fossero ancora lì intorno, quelli che gli avevano sparato. Volevo ucciderli tutti. Li ucciderò tutti. Devono pagare per quello che hanno fatto a Mike”. Non eravamo nel Far West. Cercai di spiegargli che ci sono le leggi, la polizia, non gli bastava che finissero in galera? “No, non mi basta – disse arruffandosi i capelli e mi guardava con una tale rabbia, come se fossi stato io l’assassino – Devo vendicarlo, capisci? Li devo ammazzare e stop”. Adesso mi piaceva anche quella luce selvaggia e disperata che aveva negli occhi verdi.
Mi aveva detto un nome, Frankie Sollozzo. Avevo già sentito parlare di lui. Padre O’Donnell mi avrebbe fatto il sermone, ma io pensavo che non avrebbe dovuto esistere inferno per chi ripuliva il mondo da una merda come Frankie Sollozzo.
Avevo deciso di fare di testa mia. Avevo sempre fatto così. Era la ragione per cui l’allenatore mi teneva fuori squadra, illudendosi che punendomi mi avrebbe fatto cambiare idea. Il vecchio Ben aveva finito col non sopportarmi più. “Testa calda di un irlandese testardo” mi chiamava.
Riuscii a farmi ricevere inventando una storia abbastanza credibile sul fare investire a Sollozzo denaro sicuro in una squadra di baseball e portai con me, come referenza e come omaggio, la preziosissima mazza autografata da Mickey Mantle. Due energumeni mi fecero strada per una serie di saloni che grondavano tappeti, quadri, lampadari e ogni altro oggetto che dichiarasse che Frankie Sollozzo era l’uomo più ricco della città. Alcuni di quegli oggetti non me li sarei tirati in casa neanche morto. Alla fine arrivammo a una sala più grande delle altre alla cui scrivania in fondo stava seduto un grassone e ci lasciarono soli. Per quanto fosse impegnato a gestire il racket delle scommesse e ad eliminare quelli che gli erano scomodi, Frankie Sollozzo doveva trovare molto tempo per rimpinguarsi: aveva un paio di menti in abbondanza e il suo grasso deretano debordava dalla sedia su cui stava seduto. Con tutto il denaro che gli pioveva dal soffitto poteva anche permettersi una poltrona più ampia per contenerlo, pensai.
Il grassone era un autentico fanatico del baseball e sembrava deliziato dalla mia compagnia. Si fece raccontare una quantità di aneddoti e ogni tanto rideva fragorosamente mostrando i denti gialli. “Anche mio nipote gioca a baseball ma vuole farcela per conto suo – mi confidò – Hanno un loro orgoglio questi ragazzi. Non contano più sui vecchi”. Scosse la testa come se fosse abbandonato e incompreso. Poi tornò a sghignazzare e a chiedermi di raccontargli altre storie. Mi ero avvicinato a lui, per quanto me lo consentisse il suo alito fetido. Gli mostrai la mazza da baseball di Mickey Mantle, la brandii in alto, poi calai il colpo fracassandogli il cranio senza dargli neppure il tempo di meravigliarsi. Una pozza di sangue si allargò per tutta la scrivania dove Frankie Sollozzo era stramazzato ancora ghignante e cominciò a colare sul marmo del pavimento. Me ne uscii tranquillo come ero arrivato, sicuro che ci sarebbe voluto un po’ di tempo prima che gli energumeni bussassero alla porta per disturbare il loro boss. Tempo sufficiente per porre un po’ di distanza tra me e quella casa degli orrori. Era stato tutto più facile di quanto pensassi, avevo solo dovuto sacrificare uno dei pezzi più pregiati della mia collezione.
Non dissi niente a Danny, solo di salire in macchina e fare in fretta. Continuai a non dire niente finché non arrivammo fuori città. Allora frenai di colpo e lo guardai, perdendomi nel verde dei suoi occhi. “Hai avuto la tua vendetta. L’ho fatto fuori io Frankie Sollozzo. Adesso è seduto alla scrivania con la testa spaccata. Scusami se non ho lasciato che lo facessi con le tue mani”.
“Ma perché l’hai fatto? Sollozzo aveva ucciso mio fratello, non il tuo. Perché, Rusty?”
“Perché se uno di noi due doveva sporcarsi e friggere all’inferno era meglio che fossi io. Lo capisci, adesso, quanto ti amo?”
Cercavo di parlare d’altro. Gli avevo raccontato un paio di episodi di quando giocavo come pitcher, lo avevo convinto a fermarsi a mangiare un hamburger, a metter su un disco al juke box, ero perfino riuscito a farlo sorridere. Poi gli avevo dato il modulo da compilare, quello che serviva alla squadra. Nome: Daniel Sullivan. Nato a Knoxville, Iowa, 4 maggio 1938. Nome del padre: Edward Sullivan. Nome della madre: Mary Sollozzo.
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