Maurice Michaelwhite, classe 1933, un cockney duro e puro come confessa nel documentario Candid Caine (1969) che è un po’ un’autobiografia divertita. Chi è mai costui?
L’Agente Senza Nome che è stato l’anti-Bond per eccellenza. Occhialuto, divertito, ironico. Michael Caine, ovviamente, che prese il nome d’arte guardando L’ammutinamento del Caine (1954) quando ancora lavorava con piccole compagnie di teatro nella provincia londinese, mal visto sia dai colleghi che dalla gente del suo stesso quartiere.
«I cockney - rivela - erano considerati un po’ come i neri d’America negli anni ’50 e ’60. Facevano lavori umili, spazzini, garzoni, lavavano i bagni. Che uno facesse l’attore era un privilegio, non era considerato un mestiere». L’esordio cinematografico fu in Zulu (1964) perché, dicevano, portava bene l’uniforme, lui che del suo passato militare non ha buoni ricordi anche se si considera un patriota.
Michael Caine ha accompagnato la mia vita con splendidi film e personaggi di ogni genere ma certamente, anche se ha trovato un finale di carriera ottimo nelle mani di Christopher Nolan (i Batman ma anche Inception) resta l’immagine dell’agente segreto fuori dagli schemi. Anche se ha fatto il gangster, il soldato, il brillante in un incredibile numero di film resta sempre un po’ l’agente Harry Palmer. Già, anche se quel nome nei romanzi di Len Deighton non c’era e fu coniato per la trasposizione nel 1965 di Ipcress.
Un film prodotto da Harry Saltzmann, che produceva anche Bond ma, al contrario di Albert Broccoli, voleva fare altre cose. Questo film (primo di una fortunata serie) si doveva presentare come l’esatta antitesi di 007. Però... ci sono dei distinguo da fare. Non solo perché gran parte del cast tecnico viene dalla produzione jamesbondesca (musica di John Barry, scenografie di Ken Adam, montaggio di Peter Hunt) ma alla fine è proprio Caine stesso a sconvolgere il paradigma di partenza.
Nel film di Sidney J. Furie dopo un piccolo teaser in cui assistiamo al rapimento di uno scienziato e all’uccisione di un agente dell’MI5, facciamo conoscenza con Palmer a casa sua. Suona la sveglia e, mentre scorrono i titoli di testa, lo vediamo alzarsi con uno sguardo sfuocato verso la stanza che lo circonda. Ha bisogno degli occhiali, cosa che un vero agente come 007 non farebbe mai. Eppure anche in pigiama mentre si prepara meticolosamente il caffè, Palmer ha uno sguardo acuto, ironico. Indossa abiti dozzinali, si muove per uffici quantomeno squallidi, tutto il suo campo di battaglia è una poco esotica Londra. Viene inserito in una realtà dei servizi dove da subito è evidente la presenza di un traditore. Eppure Palmer non ha nulla a che fare con gli eroi di John le Carré e molto con quello di Ian Fleming. Anche quando fa la spesa al supermercato.
Militare sorpreso a trafficare a Berlino è stato arruolato a forza nei servizi ma, malgrado l’aria sorniona e strafottente, conserva le caratteristiche tipiche dell’eroe d’azione cui la spy story ci ha abituato. Bon vivant, ama le belle donne, la musica raffinata ma non esita a sparare e a fare a cazzotti quando se ne presenta la necessità. Il pestaggio con la guardia del corpo di Gramby (il cattivo albanese) sulle scale davanti alla biblioteca nazionale e la sparatoria nel garage ne sono testimonianza.
A mano a mano che la vicenda procede Palmer perde quelle caratteristiche che lo volevano verniciare da anti-eroe. La storia coglie due degli elementi più in voga in quegli anni della Guerra fredda: il furto di scienziati e il lavaggio del cervello. Dopo una serie non indifferente di morti ammazzati (agenti americani che incolpano lui, cattivi e anche colleghi come il grande Gordon Jackson che sarà poi il capo dei Professionals) Palmer risale le fila della misteriosa pratica Ipcress. Altro non è che un sistema di condizionamento che riduce il cervello in poltiglia. Lui stesso viene rapito e sottoposto a un regime durissimo. Ma con astuzia e caparbietà riesce a rimanere se stesso, anche infliggendosi volontariamente il dolore per mantenere lucidità. Perde invece gli occhiali, salta, spara e scopre la spia all’interno del servizio. Per essere un pantofolaio mica male.
Sin dal commento musicale è ovvio che ci troviamo di fronte a una spy story tesa e ricca di suspense con una rappresentazione dei servizi altrettanto bizzarra e iperrealistica quanto quella dei film di Bond. C’è persino la scena in cui gli cambiano la pistola come in Dr. No. Nello scenario di Londra che riesce comunque a essere suggestivo pur concentrandosi su rioni popolari e magazzini, Palmer si muove con disinvoltura, schiva pallottole e inganni. Un’altra faccia dello spionaggio che non rinuncia a ritmo e trovate spettacolari (la sequenza del lavaggio del cervello è quasi da fantascienza) mentre l’analisi psicologica resta solo accennata, se non inesistente.
I romanzi indulgevano maggiormente su questo aspetto, i film invece mantengono un piglio vigoroso che finisce per essere complementare allo spirito delle avventure di 007.
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